martedì 22 novembre 2011

GURU BLUES

Massimo Carlotto in un'intervista concessa a Notorious, l'agenzia di comunicazione che ha seguito Bolascolegge 2011, ha risposto alla domanda "quali pensi sia il futuro del Nord Est?" dicendo che non v'è alcuna previsione ottimistica. Nulla di buono fino a quando non vi sarà un risveglio collettivo. Già. Il risveglio collettivo che credo passi inevitabilmente dal risveglio del singolo, ma  cosa sia il risveglio del singolo non lo so. E' connesso probabilmente dalla consapevolezza di se' stessi, dal capire dove si è e cosa si fa. Forse. Comunque una roba personale. Già, penso proprio una roba personale. Un po' d'anni fa, prima che uscisse "A Pedate", venne organizzato uno spettacolo sul calcio preparatorio all'esordio del libro in cui raccontavo storie di quel benedetto/maledetto sport accompagnato al piano da Marcelo Zallio. Fu un buono spettacolo, probabilmente un po' troppo lungo, ma insomma non male. M'arrivarono poi dei commenti, uno dei quali fu: "Ma questo Ballestracci non dà nessun messaggio forte sulla vita...". La signora in questione desiderava che, insomma, io le indicassi un'ipotesi di comportamento perpetuo. Proprio io, che mi son separato dalla moglie con un bambino di sette mesi e che sono perennemente senza una lira, che faccio i salti mortali per arrivare in fondo al mese, dovrei mettermi ad indicare la strada agli altri per vivere meglio. Per illuminare loro la via. Ora se potessi reincontrare quella signora un consiglio dal cuore glielo darei. Ecco, per esempio, facciamo finta che ora, mentre sto scrivendo, la tizia riappaia. Finalmente la potrei indirizzare a qualcuno che la può illuminare, che le può dare un punto di riferimento eterno, un centro di gravità permanente, che ha già indirizzato tanti altri. Signora vada in libreria. Non occorre che entri, basta che guardi la vetrina. E' interamente stipata di libri che parlano di Steve Jobs. Ne scelga uno a caso e lo compri. Lo apra e finalmente creda in se' stessa. Come diverse migliaia di altre persone che finalmente credono all'impalbabilità di un sogno. Che penso non c'entri un cazzo col risveglio collettivo.

giovedì 13 ottobre 2011

TASSILI

Non è una recensione. E' la possibilità di una metafora.
Recensioni ne ho scritte tante e m'hanno stancato: la maggior parte delle volte sono pippe che servono far vedere agli altri quante robe sai, o, peggio, hanno una funzione persino di sfogo. Dopo un po' ho pensato che bastasse un "mi piace" o un "non mi piace", con un paio di righe, magari che facessero ridere, sul perchè. Tipo: "Se "Ghost Of Tom Joad" è il nuovo "Nebraska", io sono il nuovo Ippogrifo dell'Orlando Furioso". Non servono mica tante righe per far capire il concetto. E' chiarissimo. Ma le riviste musicali esigono le pippe, ma oramai anche le pippe non servono più tanto i cd mica li compra più nessuno. 
Però "Tassili", il nuovo cd dei Tinariwen mi ha fatto venir voglia di scrivere. A mò di metafora.
E' stato "Aman Iman", tre anni fa forse, a farmi tornare l'idea che magari si poteva continuare a suonare. Ad appassionarsi ad un suono e, magari, cercare di riproporlo, anche se è durato poco. S'è quasi subito insinuato il solito tarlo: "Ma che cazzo suoni, che tanto quello che suoni l'hanno già suonato i Tinariwen. Invece di rifare Junior Wells, cosa rifai i Tinariwen? Zuppa o pan bagnato son la stessa cosa Balle!". Allora mi sono limitato ad ascoltarli con tutta quella serie di aspettative che possono diventare deleterie. Con il rischio che l'attesa non serva più a niente, che diventino degli zombie come Springsteen, Van Morrison, Ligabue, B.B. King, Eric Clapton e tutta una lunga schiera di musicisti che dovrebbero smettere di suonare, per il bene nostro e anche loro, credo. Ma era difficile: "Aman Iman" era un capolavoro e se s'incide il capolavoro quello che viene dopo deve essere all'altezza, altrimenti il capolavoro diventa la corda che pende dal soffitto. "Imidiwen" non era "Aman Iman", lo poteva essere se "Aman Iman" non ci fosse stato, ma c'era e allora il cd successivo, quello che nella circostanza è diventato "Tassili", era il cerchio di fuoco. Le ruote delle jeep dei Tinariwen potevano insabbiarsi nella musica del deserto e rimanere per sempre sprofondati da qualche parte nel Tenerè: in questo senso la vicinanza con il BLUES è particolarmente radente. Ibrahim deve averlo capito ed è saltato fuori "Tassili", che non è, per dire "Into The Music" confrontato con "Saint Dominic Prewiew": due "masterpieces" diversi nello stile nella carriera di Van Morrison. "Tassili" è solo mezzo metro più avanti d'"Aman Iman", un giro di ruota nella sabbia, quello giusto per liberare la jeep. Wilco e la Dirty Dozen servono ad aumentare il suono, a renderlo più profondo.Probabilmente anche a indurre a un qualche cambiamento nello stile, che a me par di sentire. Sarà che non sono più abituato a roba non ancora ascoltata. In ultima analisi mi par di percepire qualcosa che fino ad ora non s'era sentito nel suono della band. Cioè, mi spiego e sottolineo se non fosse abbastanza chiaro, a far ascoltare qualcosa di nuovo dentro a questo cd. Mica tanto: un briciolo di qualcosa di nuovo in quello che c'è piaciuto ascoltare fino a ieri. E' moltissimo, perdio. Qualcosa di nuovo, adesso più che mai, è incredibile. TASSILI. Che Allah protegga i Tinariwen.
E questo è tutto.

lunedì 26 settembre 2011

IL RINASCIMENTO VENETO O IL FALLIMENTO?

Articolo apparso sul Gazzettino di Treviso, sabato 24 settembre 2011


Ho letto, probabilmente su questo giornale, mi pare in un articolo intervista a Gianmario Villalta, di una supposto rinascimento culturale della nostra regione. A sostegno di questa tesi vengono evidenziati due risultati "culturali" importanti nell'anno in corso: la vittoria di Andrea Molesini al Campiello e il secondo posto di Maria Pia Veladiano allo Strega. Sarebbero, secondo alcuni, segni indiscutibili del progredire inesorabile d'un movimento culturale autoctono. Vi debbo onestamente confessare la mia sorpresa nel leggere simili dichiarazioni. E' ovvio che Villalta debba mantenere un certo aplomb, nonostante la sua manifestazione, Pordenonelegge, attenga a una regione confinante, ma è altrettanto ovvio che a ciò non debba confacersi il piccolo cronista di paese. Dire che Andrea Molesini sia un'espressione culturale veneta è fuori luogo. E' veneziano e tutti sanno che esistono due mondi culturali ben distinti a seconda che si guardi un lato o l'altro del Ponte della Libertà. Venezia è Venezia e il resto del Veneto è il resto del Veneto. Poi l'abbandono dell'aula consiliare da parte della maggioranza di Palazzo Balbi nel corso della premiazione in regione di Andrea Molesini spiega molto bene il legame tra il "nuovo" Veneto politico e il "nuovo" propugnato Veneto culturale, ammesso che esistano novità. Per quanto riguarda la Veladiano, invece, sbandierare il gonfalone dello Strega a suffragio di un qualsivoglia Rinascimento fa abbastanza scalpore: pur essendo, secondo alcuni, il premio letterario più importante d'Italia è al tempo stesso il riconoscimento più sputtanato dell'intero stivale, con vette, come quest'anno e altre volte, che serpeggiano persino nello scandalo. Perciò gli studi nell'agone della dimostrazione dello svilupparsi di un nuovo periodo dei lumi nella nostra regione debbono per forza imboccare strade nuove. Nuove metodologie debbono essere esplorate per dimostrare che non siamo l'ultimo vagone del treno: quello in cui si possono vedono illuminate le luci rosse e le luci blu di fine convoglio (ndr., scritta solo sul blog: è evidente che Robert Johnson non s'aspettava nel 1937 di finire pure sul Gazzettino di Treviso. Sottolineo Gazzettino. Che soddisfazioni postume!) . Anche se appare, purtroppo, nonostante gli sforzi dei positivisti regionali, sempre più evidente la nostra ignoranza atavica, che alcune volte diventa persino motivo d'orgoglio. E si badi bene, non è una caratteristica dell'ultima svolta politica regionale, ammesso, come sopra, che ci sia stata una svolta. Ricordo come fosse ora il breve colloquio con un attuale esponente di rilievo del PD locale, che si vantava d'aver fatto organizzare sotto il proprio mandato d'assessore alla cultura, allora DC, un concerto di Miles Davis in un'importante Piazza. Era orgoglioso e gli si era gonfiato il petto: "Ero io assessore alla cultura quando abbiam fatto quel concerto. Io. Io ho organizzato il concerto..." a quel punto gli era scivolato via il nome del musicista epocale "...de chel negro che sona a tromba". Comunque la si rigiri, la frittata puzza sempre d'ignoranza. Atavica.

lunedì 19 settembre 2011

ECCO A VOI IL FEDERALISMO MUNICIPALE CULTURALE, VENETO VERSION.


Questo articolo è stato pubblicato sul Gazzettino di Treviso di domenica 18/9/2011

Ho improvvisamente compreso appieno che cos'è il Federalismo Municipale. L'avevo afferrato dal punto di vista economico, ma m'era nebuloso il punto di vista culturale. Sono state di grande illuminazione due manifestazioni alle quali ho assistito. E' stato il geniale manifesto di "Comodamente" a portarmi a Vittorio Veneto: un asino in bianco e nero in mezzo alla campagna, con su dipinto I'M ALL ALONE. Già il simbolo induceva a capire che quella manifestazione andava per forza annusata. Sono stato in Piazza Minucci e in Piazza Nova e mi sono guardato intorno stupito: tutto perchè le parole, i gesti, ma anche i suoni fossero fruiti il più profondamente possibile. Ho girovagato un poco, ho osservato gli allestimenti e subito, da pervicace sinistrorso, ho telefonato a Massimo Zemolin, grande chitarrista di stanza a Vittorio, chiedendogli che accidenti di giunta reggesse la città. Ero pressochè convinto che stesse dalla parte opposta del mainstream politico veneto. Invece la risposta di Zemolin m'ha stupito: "Governa la Lega e anche la giunta precedente era leghista...". Essendo Comodamente alla quinta edizione m'è risultato evidente che tutto è stato partorito e messo in opera in ambito leghista: il che m'ha lasciato interdetto e mi son pure dato del bigotto incartapecorito per i miei stupidi preconcetti. Ma poi, il giorno dopo, mi sono ringalluzzito. Inopinatamente, mi sono ritrovato a far da guida per una coppia di forestieri a Cittadella. Non sapevo che in quei giorni si svolgesse la Festa dei Veneti. Proprio in centro alle mura circolari era stato allestito, bello grande, il palco. Un grande fondo bianco faceva da quinta sulle quali erano riportate due frasi, anche queste belle grandi: "Il Veneto e' la mia patria. Sebbene esista una repubblica italiana, questa espressione astratta non è la mia patria. Noi veneti abbiamo girato il mondo, ma la nostra patria, quella per cui, se ci fosse da combattere, combatteremmo, è soltanto il Veneto". "Ogni volta che guardo la scritta sui ponti del Piave "Fiume sacro alla Patria", mi commuovo, ma non perchè penso all'Italia, ma al Veneto. G. Parise". Tutt'attorno era un proliferare di banchetti che vendevano prodotti e libri veneti, vocabolari rumeni/veneti ad uso delle badanti che guardano i nostri vecchi e Battaglie di Lepanto, con contorno de mangatari vestiti di nero con su la scritta "Armata Veneta". I due forestieri m'han lanciato uno sguardo che significava qualcosa che non era un complimento. Io non ho saputo far altro che abbassare gli occhi, aprire le braccia e lasciarle ricadere lungo i fianchi con un sospiro. Poi improvvisamente m'è parso chiaro che quest'ultimo incidente potesse essere utile a spiegarmi cosa fosse in realtà il Federalismo Municipale Culturale: da Comodamente alla Festa dei Veneti, come se niente fosse. Eppure pur sembrando incredibile son frutti dello stesso albero, alla cui ombra staziona un po' di gente che cerca di capire dove risieda veramente la benedetta anima ("animaccia", in senso guareschiano, risulterebbe più appropriato) del partito che governa la nostra regione.

venerdì 16 settembre 2011

SARZANA BLUES

Nonostante abbia ricordi bellissimi della provincia della Spezia, ci andavo da bambino, un mese all'anno, non ero mai stato a Sarzana. Ci sono andato perchè Andrea Giannoni e Enrico Pandiani m'hanno detto: "Dai vieni giù che c'è Alessandro Zannoni che presenta il suo nuovo libro. Dai vieni giù...". Sono andato giù. Da una parte Tellaro e Fiascherino, dall'altra le Apuane. In mezzo Sarzana. Ci sono stato poco, due giorni in tutto, ma son rimasto a bocca aperta, indipendentemente dalla bellezza del posto. C'era vita là a Sarzana e Andrea Giannoni m'ha spiegato un po' di storie del posto. Un po' più su c'era Fosdinovo e una storia questa volta la conoscevo io: quella di Graziano Battistini, secondo al Tour de France del 1960. E' stata più dura del solito tornare indietro. Questo articolo è apparso sul Gazzettino di Treviso, domenica 4 settembre 2011. So già che qualcuno al mio paesello ha rognato per quello che ho scritto, ma a quasi cinquant'anni mi prendo il lusso di grattarmi i coglioni: come Nick Corey in "Colpo di Spugna" di Jim Thompson, nella traduzione di Attilio Verardi, edizione Longanesi 1987.
"Se un uomo si gratta i coglioni, lo fa perchè ha prurito o anche perchè ci prova un po' gusto?".

La musica, o lo spettacolo in generale, è un buon modo per conoscere il mondo. Non tutto: quello che si può. Sono stato a Sarzana, provincia della Spezia, per una presentazione di un libro. Sono rimasto a bocca aperta. Letteralmente. A prescindere dal fatto che la città in questione sta a cinque chilometri da Lerici, Fiascherino e Tellaro, cioè uno dei più bei angoli di mare d'Italia, ma questo non dipende dall'estro creativo dell'uomo, sono rimasto colpito dall'effervescenza culturale della città e questo, viceversa, dipende proprio da quello. Sarzana ha 31.000 abitanti, esattamente come la mia città, ma ha librerie del fumetto, librerie per bambini con animazioni, piccolo teatro di strada, locandine appese ai muri che annunciano spettacoli insoliti e due locali che, da sempre, fanno musica dal vivo. E poi, proprio mentre gironzolavo tra le sue stradine si respirava l'aroma dell'imminente Festival della Mente: il programma è disponibile in internet e non sto qui a riportarlo, ma è, ancora una volta, da sgranare gli occhi. 46 eventi con personaggi rilevantissimi del panorama culturale italiano e internazionale. E' evidente che si rivela inutile cercare un posto da dormire a Sarzana per quei tre giorni, 2,3, 4 settembre, pur essendo il luogo molto ben fornito di strutture ricettive. E' necessario salire sulle colline della Lunigiana: a Fosdinovo oppure ad Aulla per posare la testa sul cuscino. Eppure Sarzana non è capoluogo di provincia, come per esempio Mantova, che conta solo 15.000 abitanti in più, ma vanta la sigla MN e quindi può contare di uno scalino in più nella "graduatoria" delle città. Perciò ci si può porre la questione da Alice nel Paese delle Meraviglie: "Ma perchè Sarzana sì, che ha gli stessi abitanti del mio paese, e noi no?". M'è stato spiegato il perchè, là a Sarzana. Il posto è una sorta d'enclave della sinistra, 78% alle ultime amministrative, che cerca di mantenerla come luogo esemplare, nonostante i tempi difficili che attraversa anche quella parte politica. Ogni rappresentante a Palazzo Madama e in sede di governo regionale cerca di portare a casa il più possibile per la città, proprio per consolidare quell'aria di Avalon, un po' fuori dal mondo in effetti, che ivi si respira. Nonostante la spiegazione, forse a causa dei  tempi così saporosi di federalismo persino municipale o a causa della dura cervice, la domanda mi rironza nella testa:  "Ma perchè Sarzana sì, che ha gli stessi abitanti del mio paese, e noi no?". Trecentottanta chilometri d'autostrada con quel pensiero. Fortunatamente al mio ritorno Roberto Scalabrin ha pensato bene di portare nella mia città quel fenomeno musicale che risponde al nome di Simone Zanchini, altrimenti detto "Dio che suona la Fisarmonica". Un placebo prima che quella questione maledetta riprenda a ronzare.

giovedì 1 settembre 2011

VENETO POWER

Dal Gazzettino di Treviso di domenica 28/8/2011

Dalle carte risulta evidente: il Veneto e in particolare la provincia di Treviso è una zona da record. E' il territorio che, nella storia, è passato più velocemente dalla pellagra al SUV. E' evidentemente un pregio, ma, come spesso accade, la medaglia ha due facce. L'altra ricorda in qualche modo i problemi che incontrano le imprese che aumentano vertiginosamente il fatturato: spesso e volentieri rimangono vittime di pericolosi squilibri finanziari. In campo territoriale questi squilibri si rivelano dal punto di vista, diciamo così, sociologico: pur, in media, ricchi più di altri, conserviamo un po' l'immagine che emergeva nei film degli anni '70. Gli stereotipi del sempliciotto e della servetta. Direi che non a caso, per esempio, questo governo, pur pescando abbondantemente nel bacino elettorale veneto, abbia riservato alla regione tre dicasteri così, così. Welfare e Funzione Pubblica, che sono ministeri più da urlo (nel senso di sigamento)che di sostanza e la Cultura che, pur importante, mai come oggi è dicastero disinnescato. Aldilà della consuetudine di rivelarsi vittimisti direi che il perpetuarsi di forme immutate di considerazione nei confronti della regione è legato al nostro scarsissimo cosmopolitismo, in qualche modo attutito da quel mondo a parte chiamato Venezia. Sempre più mi accorgo che noi amiamo alla follia il nostro avito territorio. Lo consideriamo il centro del mondo per comodità e costumi, ma purtroppo così non è. Bisognerebbe accorgersene e muoversi prima degli altri in senso opposto anche perchè l'arte, soprattutto, dimostra come l'occident-centrismo sia una considerazione ultrapassata. La musica, che è l'arte più immediata, come l'abbiamo sempre considerata, è ferma. Mai come oggi le radio trasmettono canzoni degli anni sessanta, settanta e ottanta in originale o riarrangiate, soprattutto in direzione caraibica, che conquistano in fretta la vetta delle classifiche. Il classico esempio di "futuro alle spalle". Ma, contemporaneamente, appaiono dal resto del mondo musiche nuove e inusitate che la globalizzazione webbistica ci consente d'acquisire in tempo reale. Arrivano dal mondo musicale che classificavamo indistintamente etnico, sia che provenisse dal Botswana, dal Madagacascar, dal Pakistan, dalla Repubblica Domenicana (che è meno etnica perchè ci si va in ferie), dal Mali, dalle Isole Figi, una serie di stimoli incredibili che possono muovere questa musica piantata come una barca in mezzo a una bonaccia oceanica. E' un momento importante che anche i dilettanti possono cogliere, forse anche meglio dei professionisti, meno sensibili in quanto affacendati spasmodicamente a procurarsi da vivere. E' il momento del cambio generazionale, che nessuno vuole, ma che arriverà prestissimo per forza di cose. Nessuno può fermare la natura,  è ovvio, ed è anche ovvio che tutto ciò che avete letto è una metafora.

Una piccola aggiunta. Nonostante appaia "Il Gazzettino" più a destra dell'avversaria "La Tribuna di Treviso", appartenente al gruppo Repubblica, appare sempre più evidente come quest'ultimo giornale, almeno nell'edizione trevigiana, tenti apertamente di blandire i "nuovi" capi di Palazzo Balbi. Inserirò perciò in questo articolo una lettera da me inviata al suddetto giornale che riguarda l'assoluto stato di degrado della Rete Ferroviaria Regionale. Lettera che non è stata, contrariamente a tutte le mie precedenti missive, pubblicata, forse a causa dell'evidente sottolineatura dell'incapacità dell'Assessore Regionale ai Trasporti e alle Infrastrure d'affrontare la questione. Oppure perchè non è arrivata  o chissachè. Fatto stà che tutto sembra andare bene. Tutto fatto a regola d'arte.

CHISSO E LA POLITICA DEL FARE.
Ho letto sul vostro giornale della polemica Stradiotto-Chisso e le affermazioni di quest'ultimo sulla Politica del Fare. Per sfortuna mia e di Chisso ho a che fare quotidianamente con la Rete Ferroviaria Italiana, più precisamente con la Rete Ferroviaria pertinente alla nostra regione lungo l'asse Padova-Belluno, Bassano-Venezia e Venezia - Conegliano: assi che includono importanti centri della provincia, ma anche della regione, oggetto della tanta sospirata e sbandierata (da Chisso, soprattutto) Metropolitana di Superficie. A oggi di questo importantissimo ganglio attinente alla Mobilità Regionale si sono del tutto perdute le tracce, perdurando invece un sempre più palpabile disastro sulle linee, chiamamole così, locali sopraccitate. Treni soppressi una volta annunciati, con gente sbigottita sul marciapiede. Guasti improvvisi ai locomotori in aperta campagna. Ritardi abissali: superiori persino al tempo di percorrenza della linea. La Politica del Fare sventagliata da Chisso, in questo caso, ha procurato inenarrabili disastri. So per certo che l'Assessore Regionale alla Mobilità e alle Infrastrutture si chiamerà fuori: colpa di Trenitalia, delle aziende a cui affidata la manutenzione, etc., etc., nel consueto e vergognoso scaricabarile di responsabilità tra organi e organetti che attengono alla cosa pubblica. Di certo, però, e qui l'hanno verificato con mano coloro che debbono usare il treno, a fronte d'uno tangibilissimo peggioramento del servizio, c'è stato un vigoroso aumento delle tariffe. Renato Chisso dirà che non è colpa sua, che è colpa altrui. Ma se l'assessore non ha colpe, e quindi responsabilità, su un settore così cruciale come il trasporto passeggeri su rotaia, mi chiedo a cosa serva avere un Assessore Regionale alla Mobilità e alle Infrastrutture.



domenica 21 agosto 2011

ALL BLUES (poche cose, forse pure sbagliate sul blues)

E' stato durante un concerto su una cascina di Stagno Lombardo che m'è capitato. Stavo suonando con la banda, i Fieldmen Of Blues, e mi sono chiesto perchè accidenti stavo facendo lo stesso assolo, o circa, da trenta concerti. E perchè le registrazioni dei concerti della banda mi dicevano che le canzoni le tiravamo troppo lunghe e che parevano tutte uguali. La responsabilità era mia. Ero io il capo. Per questa ragione mi sono fermato e sono ancora fermo col blues. Per questo ho cambiato scenario: narrazione di storie con Massimo Zemolin e Gigi Tempera, rock italiano con Ricky Bizzarro, l'Argentina di Marcelo Zallio e un esperimento di sola voce, armonica e chitarra, con un organo che fa un'unica nota, un po' sullo stile di Johnny Cash, periodo Rick Rubin. Tutto per evitare il circo degli assoli del blues, che alla fine, quasi sempre, menano sempre lo stesso torrone. O menano torroni già menati da mò. Il buon Silvano Montagnoli (che è un po' la mia finestra sul mondo del blues italiano) ha postato il video di un concerto d'un celebre chitarrista italiano che coverizzava (nel senso buono del termine) Angelo "Leadbelly" Rossi. Entusiasmo, maestria, un occhio di riguardo allo spettacolo, nel senso di saper stare in scena, ma dopo un po' per me, che un po' di blues l'ho ascoltato, i riferimenti erano evidenti: sapevo da dove aveva preso quel timbro, quell'approccio e io, sinceramente, non vedo perchè dovessi dire più di un laconico "bravo", visto che quelle robe le ho già sentite minimo (minimo, minimo) quindici volte. Non è una critica che rivolgo solo agli altri. In "Wimmen And Devils" dei Fieldmen Of Blues ho suonato la medley "Lord, Lord/Blues Hit Big Town" di Junior Wells direi bene. Junior Wells è probabilmente l'armonicista, o musicista, di blues che preferisco ed è stato piacevole allora suonarla, ma subito dopo è sorta la domanda definitiva: "Ma perchè uno dovrebbe mettersi ad ascoltare Marco Ballestracci che fa Junior Wells quando può acquistarsi il capolavoro della Delmark "Blues Hit Big Town e ascoltare direttamente gli originali di Junior"? Già perchè? Tutti quelli che parlano di "preservazione" non mi hanno mai particolarmente convinto, visto che i dischi preservano già abbastanza bene per conto loro e al posto dei musicisti basterebbero i disc jockey radiofonici per diffondere le note nell'etere.
La realtà è un'altra. Il blues è la musica che meglio di ogni altra consente a chi desidera salire su un palco di salirci il più velocemente possibile e così di cominciare a risolvere leggittimi problemi di "apparenza". Non c'è niente di male ma, dal mio punto di vista, dopo un po' bisogna ammetterlo ed accorgersene, altrimenti tutto può diventare una "posa" e sconfinare in qualcosa di vagamente patologico.  Questo dovrebbe, al passettino successivo, portare alla consapevolezza che Louis Myers nel brevissimo "Theme" che chiude "Live In Boston 1966 - Junior Wells and The Aces" suona paro/paro tutti, ma proprio tutti, i riffs di chitarra che i chitarristi d'orientamento blues/jazz italiani adoperano quotidianamente. E quindi, nuovamente, cadere nella stessa domanda: "Ma, cazzo, gli hanno già suonati nel 1966 e io sto qui nel 2011 a rifarli uguali. Miiinchia". E' necessario porsela per non prendersi in giro e autocostruire una falsa immagine di sè. "Sì, sono proprio bravo. Peccato che abbia copiato T-Bone Walker nota per nota. Per cui il bravo è lui. E se lui è lui, io chi cazzo sono?". E bisogna fermarsi, cosa difficilissima soprattutto per i musicisti professionisti che devono suonare per campare e non potendosi fermare non riescono a sentire altri stimoli che non siano la (scarsa) pagnotta. 
Nel blues è già stato detto tutto, onore ai maestri che bisogna conoscere e imparare, ma non bisogna spacciare, come ho sentito fare in un importante festival, "I Want To Be Loved" per una canzone propria solo perchè s'è modificato il testo. Quelli che il blues un po' l'hanno masticato mangiano la foglia prima che immediatamente e del giudizio degli altri, quelli che vogliono "Sweet Home Chicago" e "Roadhouse Blues", francamente, per quanto lusinghiero possa essere il loro giubilo, ce se ne può tranquillamente sbattere le balle.
Ora il BLUES è un patrimonio inestimabile che bisogna conoscere, ma per avere un senso bisogna lasciarselo alle spalle e guardare avanti. Creare il proprio blues, che è la propria forma d'espressione. Invece mi tocca vedere gente che storce forte il naso di fronte a Black Keys, Tinariwen (la tradizione touaregh, a mio avviso, è forse uno delle componenti fondamentali del suono e della sociologia del blues), Richard Johnston, White Stripes e, qui casca l'asino, Chapel Hill, che tentano una propria via a partire dal blues. Anche in Italia si può fare. Conoscere a memoria Sister Rosetta Tharpe, Fred Mc Dowell, Skip James, ma guardare avanti, ben sapendo come dicono gli Afterhours che "Milano Non E' L'America" e come dice Paolo Bacco che se nel Mississippi qualcuno muore dissanguato perchè la moglie gli ha tagliato l'uccello chè l'ha scoperto con un'altra donna, allora lo si può chiamare bluesman, mentre in provincia di Padova e Rovigo lo si può chiamare tranquillamente BAUCCO, che sta per povero tonto. Magari qualcuno dirà che è voler troppo. L'impossibile. Io invece dico: "I Don't Want To Take Nothing With Me When I'm Gone" di Angelo "Leadbelly" Rossi. E' la strada.

Voglio ringraziare Paolo "Denti da Coniglio" Bacco e Luigi Tempera per le interminabili discussioni su questa cosa misteriosa chiamata BLUES, che forse neppure esiste.

martedì 16 agosto 2011

MAGARI

Questo articolo è stato pubblicato sul Gazzettino di Treviso, domenica 14 agosto 2011. Ancora una volta, per esigenze di spazio, è stato tagliato. Sono gli imprevisti di collaborare con un giornale, ma sul blog, come già dicevamo, problemi di spazio non ce ne sono, perciò ecco la versione originale.


Mi sussurra in testa da un po' di giorni il nome di Marco Goldin. Fino al 2003 era stato importante per Treviso. Secondo me, naturalmente. Lo era perchè qui, in provincia, via dal capoluogo, ci si domandava entusiasti: "e quest'anno cosa porta Goldin a Casa dei Carraresi?". E si stava in attesa, perchè si sa, in provincia, a ferragosto soprattutto, si aspetta che accada qualcosa. Ma poi era bello perchè, quando s'andava in giro a suonare a Milano piuttosto che a Reggio Emilia, c'era sempre qualcuno che parlava di Treviso per via degli impressionisti. Quelli dentro a Casa dei Carraresi e anche a Palazzo Sarcinelli. Poi Goldin è scomparso. Non ne so la ragione, ma c'è chi dice perchè era ingombrante e chi perchè non si poteva finanziare solamente un grosso evento e basta: era come finanziare un unico concerto importante e niente altro. Alla prima possibile ragione si può rispondere molto lapidariamente: chiunque abbia menato un poco il torrone della cultura sa che i personaggi che emergono, quelli non figli di papà, hanno sviluppato, dai e dai, sei dita di pelo sullo stomaco, perciò ingombranti un po' per natura e un po' per evoluzione della specie. La seconda ragione apre invece scenari complessi. Innanzitutto e da sciogliere la dicotomia mostra/concerti. Una mostra importante e un concerto importante hanno due diversi impatti sul territorio. La prima, a livello turistico ed economico ha un feedback enormemente più considerevole. A Castelfranco i gestori di hotel e ristoranti stanno ancora latrando al ricordo della Mostra del Giorgione del 2010. Ne rivorrebbero un'altra, ma dovrebbero sapere che i musei prestatori, prima o poi, le opere le rivogliono indietro. Non tutti hanno la fortuna di Francois Pinault che può usare Palazzo Grassi e Punta della Dogana come magazzini per la roba che non gli sta in casa. E dovrebbero sapere pure che di convegni e fregi, tutta roba per specialisti, alla gente normale non gliene può fregar di meno: o mostre importanti o nisba. Perciò nonostante la buona volontà di alcuni mecenati che organizzano a spese loro eventi di una certa portata che richiamano anche parecchia gente dalla Marca, è da sottolineare che solo i grandi eventi culturali, contiguamente plurigiornalieri, svolgono una reale funzione di leva economica. Personalmente sono convinto che con la cultura si mangi primo, secondo, contorno, dolce, caffè e anche liquorino. Perdipiù oggi diventa persino indispensabile specializzarsi in economia della cultura, se vogliamo chiamarla così, profondamente attigua all'economia del turismo, per veder di saltar fuori in qualche modo dalle acque salmastre. Lo dicono tutti che l'unica grande risorsa di questa nostra povera patria sono le opere d'arte, i santi, i poeti e i navigatori. Magari sono nati in Veneto anche i fratelli Bellini e Andrea Mantegna, magari non è necessario che la mostra di prestigio debba per forza riguardare un pittore nato propriò là,  magari si possono anche organizzare giornate di teatro come ad Avignone o festival cultural/musicali davvero importanti, e qui di esempi ce ne sono a bizzeffe in giro per l'Italia e l'Europa. Magari nella Marca ci sono persino persone in grado di organizzarle, magari non lucrandoci troppissimo sopra. Magari si potrebbe fare un saltino in Svizzera per vedere come si organizzano per bene gli eventi culturali. Magari qualcuno direbbe: "Ma in Svizzera hanno i soldi" e magari s'incontrerebbe qualche svizzero, come è capitato a me, che, indicando gli eleganti palazzi di Via Nassa a Lugano, direbbe: "La vedi tutta stà roba? Ecco. E' stata tutta costruita con i vostri soldi". Chissà perchè qui da noi si finisce quasi sempre per dire: "Magari!".

domenica 7 agosto 2011

SERENISSIMA ROCK'N'ROLL plus Piccola Favola Per Agosto

Pubblicato sul Gazzettino di Treviso di domenica 7 agosto.
Per l'occasione lo pubblico integralmente, nel senso che, per motivi di spazi giornalistici, la versione qui riportata è stata, da me stesso, ridotta. In un blog non abbiamo di queste problematiche perciò eccovela "nature", più prolissa e esagerosa, però "nature". A seguire una Piccola Favola d'Agosto, per tenervi su di morale se doveste rimanere incollati al vostro schermo.

I più attenti si saranno certamente accorti di un fenomeno che accade da un po' d'anni. E' un fenomeno trascurabile, una cosettina da poco a ben vedere, ma, secondo me, esplicativo di qualcosa. Ogni tanto in qualche locale pubblico, in mezzo a gente che si sta facendo gli affari propri, piombano degli individui che cominciano a parlare a voce alta della Serenissima Repubblica. Attaccano bottone con chiunque per perorare stà causa, ma alla prima occhiata appare chiaro che il loro rapporto con la Storia, la disciplina scientifica, intendo, è faraginoso. Per loro Adriano, non è Publio Elio Adriano, l'imperatore romano pacificatore di cui si sa pochissimo, ma Adriano Leite Ribeiro, l'imperatore del Flamengo, passato all'Inter e poi precocemente impanzonito. Nonostante codeste difficoltà d'interpretazione storiografica, appare chiaro che recentemente debbano aver frequentato un seminario del povero professor Frederic C. Lane, morto però nel 1984, alla Johns Hopkins University di Baltimora, per raggiungere un così elevato grado di preparazione sui temi di cui disquisiscono all'interno dei locali pubblici della Marca e del Veneto in generale. Spesso le discussioni terminano con un perentorio: "Senti, a mi dea Repubblica Serenissima no me ne frega gnente". Al che i relatori rispondono con l'immancabile e oramai prevedibilissimo: "Come? Non ti interessano le tue radici. Le tue origini?". Ecco, proprio di origini e radici volevo parlare, riferendomi in particolare al dialetto. A giugno, quando a Castelfranco è stato organizzato Bolascolegge, ho avuto il piacere di scarrozzare per la città Margherita Oggero e Ernesto Ferrero che sono rimasti piuttosto sorpresi del fatto che, per interloquire con gli amici e i conoscenti, io usassi esclusivamente il dialetto. "Ma qui parlate tantissimo dialetto!". "Beh certo! Noi l'adoperiamo praticamente sempre nei rapporti personali". Erano sorpresi di questa circostanza, mentre io ero davvero a mio agio e anche, come ho già scritto in precedenza, un pochetto orgoglioso. E' un po' come far parte di una banda con un proprio linguaggio interpretabile, più o meno, solo da chi ne fa parte. Un po' un vezzo da ragazzotti, per dirla tutta. D'altro canto, però, mi sento davvero estraneo e lontano anni luce da chi ammicca all'uso del dialetto come una sorta d'originale appartenenza a un non meglio identificato "popolo veneto". In particolare mi fa ridere quella tendenza che nell'ammiccamento traspare quando si parla di band musicali che utilizzano, in tutto o in parte, il dialetto nel loro repertorio. Generalmente vengono identificati, ghignando, come "roba nostra", "roba de qua". Ora, io posso portare la mia personale, limitata esperienza nel campo riferendomi a due particolari esperienze. La prima è quella dei Radiofiera di Ricky Bizzarro che nell'ultimo cd "Atimpuri" sciorinano tutta una serie di canzoni in dialetto, proseguendo, comunque, una teoria già iniziata nella loro passata produzione discografica. Per conoscenza personale posso decisamente garantire che non c'è alcun ammiccamento di "prurigine autoctona" nelle canzoni di Ricky Bizzarro. Anzi, direi. Sono piuttosto una sorta di rivendicazione di provenienza da un mondo, Fiera di Treviso, con tutta una sfilza di personaggi caratteristici che si affacciano a un mondo più grande, da esplorare con curiosità. L'altra, meno conosciuta ai più, è quella di una band troppo facilmente etichettata come band da sagra paesana e da confusione. I Los Massadores vengono da Riese Pio X, piccolo paese con una spontaneo e stimolante status culturale giovanile da città più grande. Non nascondono, come i Radiofiera, le loro origini, anzi, ne sono, come me, un pochetto orgogliosi, ma la loro propensione al dialetto e al vaudeville è piuttosto travisata. Nel loro "Scheiline" (già il titolo vuol dir qualcosa) parlano di questioni piuttosto spinosette del nostro territorio e credo che la canzone che meglio evidenzi queste questioncine sia "L'ignodanza": una sorta di parodia di quelli di cui parlavo all'inizio. I Testimoni di Geova della Serenissima Repubblica. I paladini de "A Terra Ze (o Xe) Nostra". E' clamoroso quando nella canzone, dopo una serie di orgogliosissimme rivendicazioni di veneticità, si finisce per parlare di badanti. Una roba tipo: "Sì, sì, ste casa vostra, ma da dove vien a badante de to mare?". I Testimoni di Geova della Serenissima Repubblica, quelli che sono stati alla Johns Hopkins per il seminario sul doge Giovanni Bembo, prima di ammiccare gongolanti e dire: "I Ze (o Xe) dei Nostri", almeno i testi delle canzoni dovrebbero leggerli. Almeno quello.

Una piccola favola d'agosto
Stazione di Padova. Pomeriggio/sera d'un venerdì. Arrivo col treno e mi dirigo verso l'uscita. C'è qualcosa di nuovo però in stazione. Di fronte al consueto parterre di tossici marci, puttane, extracomunitari pronti a tutto  sono schierati in circolo dei ragazzotti, ma anche gente un po' meno ragazzotta, che cantano Inni a Dio. In circolo dentro all'atrio della stazione di Padova. Una scena surreale. Questi che cantano in circolo agitando le braccia e le gambe con i loro Tao di legno che penzolano dal collo e tossici, questuanti, homeless che li guardano straniti. Che non capiscono un cazzo di quello che sta succedendo. Mi fermo un attimo e un pensiero feroce mi passa per la testa. "Ma se proprio ti toccasse scegliere da che parte stare, se la vita ti mettesse con le spalle al muro, da che parte preferiresti stare?". C'ho pensato a lungo, ma poi ho scelto. Preferirei stare tra quelli che che cantano e ballano. Per una questione d'aspettativa di durata di vita.

domenica 31 luglio 2011

IN UN MONDO DI COVER

pubblicato sul GAZZETTINO di Treviso, domenica 31/08/2011
In cima alla catena musicale è davvero facile piazzarci qualcuno. A bizzeffe: Glenn Gould, Tom Waits, Simone Zanchini, i Tinariwen. Chi più ne ha più ne metta. Il problema è quando si va in fondo alla catena musicale: chi ci si mette giù in fondo? "Down In The Bottom"? Tra i dannati? Qui è più difficile. Ci vuole del pelo sullo stomaco. Però è un brutto mestiere, ma qualcuno deve pur farlo. Io in fondo alla catena musicale ci metto le cover-band. Ma, attenzione, non tutte le cover-band, che il termine in questione può essere ristretto ed esteso a piacere e magari ci si ritrova a litigare con chi non si intendeva. In fondo alla catena musicale ci metto le cover band di un solo, particolare artista. Io ho avuto a che fare per la prima volta con una cover-band specializzata a Monselice, credo nel 2009. Stavamo nello stesso spettacolo. Presentavo un libro accompagnato da un pianista argentino, Marcelo Zallio, e dopo di noi si esibiva questa band omaggio a Luciano Ligabue. Ero curioso, perchè ero stato un fan del Liga fino a "Una Vita da Mediano" e ascoltarli m'interessava. Sono rimasto a bocca aperta ascoltando la voce del cantante veramente a un pelo da quella del Liga e pure attonito a guardare i musicisti che suonavano cicco-cicco ai dischi del correggiano. Ma già alla seconda canzone mi son detto: "Ma che accidenti ci stai a far qua? Vai in macchina e infila nell'impianto "Buon Compleanno Elvis". Almeno ascolti l'originale". E poi guidando m'è venuto pure in mente che in quelle band magari scartano portenti musicali perchè si discostano troppo dagli originali: a loro, magari, va bene un cantante che becca appena, appena ma che è a un palmo dalla voce del coverizzato. Comunque, alla fin dei conti, se va bene a loro, va bene anche a me. Sono solidale e anche contento se con i cachet della papagallata, che le migliori cover band mica suonano per quattro lire, i musicisti si pagano il mutuo, l'assegno di mantenimento per i figli, e magari pure riescono a evitare la manovia o di stare dietro lo sportello in banca. Però ciò che proprio non capisco è il pubblico. Ci sono quelli che cantano "Piccola Stella Senza Cielo", magari pure fanno la lacrima, davanti a chi non è Luciano Ligabue. Si vede da due chilometri che è più basso e più grassottello. Ci sono quelli che dicono senti che bea chitarra, se bravi i Pinfloid, ma quello che suona non è per niente David Gilmour. E ci sono quelli che si scatenano davanti a uno che canta "I Will Follow" e "Desire", che si muove proprio come quel cantante e ha la voce proprio identica, ma è da Camponogara e non da Dublino. Ai miei tempi c'era un tizio alla tivù: Alighiero Noschese. Un bravissimo imitatore. Alle volte si confrontava coll'imitato e, sulle prime, non si capiva chi fosse il vero politico o cantante e chi quello falso. Eppure non era un pappagallo. Era quello che voleva essere e veniva pagato bene per esserlo. Un bravissimo comico.

lunedì 18 luglio 2011

IL PANORAMA DAL DESERTO

(pubblicato sul Gazzettino, pagina di Treviso, di domenica 17/7/2011)
In un'intervista concessa a questo giornale, Mirko Artuso ha definito il Nord Est un "deserto culturale". Credo che la sua definizione si riferisca al Nord Est contenuto entro i confini della nostra regione, perchè sia il Friuli Venezia Giulia che il Trentino Alto Adige hanno un piuttosto interessante movimento di stimolanti manifestazioni . Precisato questo, come non sottoscrivere in pieno l'affermazione di Mirko? Ma da ciò vorrei divagare un poco, soffermandomi un secondo su un possibile perchè sia un deserto culturale. Mi viene subito da pensare che sia soprattutto per la diffusissima incapacità di confronto. Una delle critiche fatte a Bolascolegge, manifestazione a cui ho partecipato, è che erano troppe le presenze letterario/musicali foreste, da Torino in particolare. "Più Nord Est, per favore. Più Nord Est", da leggere, evidentemente, "più Veneto". Dapprima mi sono irritato, poi mi è venuto da ridere. A crepapelle persino. Io sono veneto a tutti gli effetti: pur non essendo nato qui, parlo veneto, scrivo gli sms in veneto e mi sento pure veneto. Posseggo quello che si dice il "senso di appartenenza" e anche, un pochino, me ne vanto come ci si vantava, da piccolini, di appartenere ad una banda. Ma non penso affatto che noi possiamo insegnare qualcosa a qualcuno, men che meno in campo culturale. Basta, per esempio, osservare i cartelloni della quasi totalità delle manifestazioni musicali estive: casting d'artisti triti e ritriti, con date alternative a 100 chilometri, sorprendenti tanto quanto l'acqua calda nella doccia. Persino le manifestazioni più importanti, che hanno un folto pubblico assodato e fedele, non rischiano una briciola: sicurezza per l'amordiddio, che la gente abbia quello che vuole. Come spettatore ho seguito per un paio d'anni una manifestazione torinese: Musica 90. Lì il rischio era assoluto. Non si sapeva cosa avrebbe combinato Diamanda Galas o chi fossero Le Tartit, Rokia Traorè e i Tinariwen, ma si usciva dagli spettacoli con la sensazione d'essere stati, per un paio d'ore, da tuttaltra parte del mondo. Ma non è una mera questione torinese. A Maniago, sottolineo, qualcuno è riuscito a far salire sul palco Marianne Faithfull e l'anno prima Arto Lindsay. A Maniago, ribadisco. E lo stesso vale per la scrittura. Supponiamo per un istante che qualcuno necessiti di un agente letterario, oppure desideri parlare davvero di case editrici e di scrittori, non del figlio dell'avvocato o del medico che adora scrivere e qualche tipografo pubblica, o anche trovare una media libreria che non abbia una scelta intimo/Yamamai, dove deve andare? A Milano o Torino, per forza. E qui qualcuno dice sempre: "Ma sono grandi città!". Peccato che siano più di dieci anni che la meniamo con la metropoli conglomerata del Nord Est: una roba tipo Los Angeles insieme a San Diego e che nel 2019 il Nord Est voglia essere il luogo europeo della cultura: significando, in realtà, Venezia che, come tutti sanno, possiede un mondo culturale a parte e manifestazioni come "Incroci di Civiltà" inimagginabili di qua del Ponte della Libertà. Colpisce basso quindi l'affermazione di Gianmario Villalta quando dice che Pordenonelegge ha aiutato anche la costruzione di un vero ambiente letterario locale, riferendosi molto probabilmente alla punta dell'iceberg rapresentata dall'inserimento nella cinquina del Campiello di Federica Manzon. A questo punto, a tutti quelli che affermano che Roma e Milano trattano il Veneto come una ruota di scorta, bisognerebbe rispondere che, in realtà, ci abbiamo messo molto del nostro per esserlo.


domenica 10 luglio 2011

UNA CERIMONIA JAZZ. JAZZ IN ITALY.

Sono stato ad un concerto questa settimana. A Villa Varda di Brugnera, per Blues In Villa. Ho ascoltato il quintetto di Terence Blanchard. Jazz, quindi e a me il jazz fa sempre un certo effetto. Mi fa sempre tornare in mente la prima volta che ascoltai un concerto di jazz al Teatro Accademico della mia città. Barney Kessel. Rimasi impressionato più che dalla musica, che non avevo proprio gli strumenti per dire A, magari neanche adesso, dalla gente agghindatissima che era filata al concerto. Alla fine ricordo i commenti: "Gheto sentio che roba, cossa chel fa? Che bravo, par Dio, che bravo!". Tutti ammicanti e un pochetto untuosi. Alle volte anche con la bavina sotto il labbro perchè durante il gig avevano pure approfittato per fare un sonnellino. Non è che sia un malmostoso, è che conosco bene i miei polli e quella serata la ricordo proprio bene. La faccenda m'è tornata in mente durante il concerto di Terence Blanchard. Gran concerto, davvero, e rimembrantemi sfilata di acconciature e vestiti lunghi. Grande aplomb tra il pubblico astante e competente. Io stavo attaccato al mixer e mi gustavo il quintetto quando, la concha che pariò el demonio, ha cominciato un pochino a piovere. Dico una roba tipo dieci gocce al minuto. Subito un po' di infiochettati hanno cominciato ad alzarsi e cercare riparo che io avevo gli occhi di fuori: "Minchia. Sono qui plaudenti e orgasmanti e appena fanno due gocce innocue, persino piacevoli, questi se la filano a cercar riparo?". Sì, sì. Gli appassionati di jazz hanno cominciato a sciamare per correre alle macchine e prendere gli ombrelli. Riapparivano dopo cinque minuti e aprivano ombrelloni grandi come il cielo per riparare le capigliaturine. Alcuni proprio s'allontanavano e la pioggia era leggerissima, appena, appena, al limite del finire da lì a un secondo. I musicisti dal palco vedevano la mal parata e cominciavano a essere inquieti: "Minchia e qui che cazzo facciamo? Sospendiamo, che facciamo?". Insomma poi è cominciata a venir giù un po' più dura e la gente ad alzarsi a frotte, già lo capivo meglio. Allora Terence Blanchard ha fatto quel refrain che chiama la chiusura e ha detto: "grazie, almeno proteggetevi dalla pioggia", ma mentre lo diceva non c'era quasi più nessuno davanti il palco. Però, in quel momento, veniva giù abbastanza di brutto, ma, insomma, non era la prima volta che prendevo acqua sulla testa. Dai, insomma, ci sta. Con un po' di gente ho provato a battere le mani per chiamare un ipotetico bis, ma Blanchard deve aver pensato: "Ma per chi cazzo lo facciamo il bis? Per stì quattro stronzi?". Non c'è stato bis e, subito dopo, ha cominciato a venir giù di brutto davvero. Me la son filata anch'io e mi son riparato sotto un porticato. Ha smesso subito. Ero un po' bagnato, ma dopo cinque minuti ero di nuovo asciutto. Si sa, il caldino estivo fa miracoli. Appena asciutto m'è venuta una gran voglia di cominciare a prendere a calci nei coglioni l'italian jazz public che non vi dico, ma anche le donne con le permanenti bagnate. Una gigantesca tempesta di calcioni, cosiccome durante le prime gocce avevo sperato nel famoso stormo di vacche in volo gaberiano/bunuelesco. Ma sono gesti e sogni che uno della mia età, quasi quarantanove, non può tenere. Un po' di aplomb echeccazzo!

venerdì 17 giugno 2011

UN UOMO CHIAMATO "CATFISH"

Raramente mi entusiasmo più ai dischi (continuo a chiamarli dischi, nonostante siano diventati cd). Ogni tanto capita che mi piaccia molto qualcosa: i Tinariwen, i Black Keys, "Me Ciamo Fora" dei Radiofiera, "Fradei" de Los Massadores, Simone Zanchini. Perciò non faccio più la posta ai negozi di dischi. Una volta ero sempre lì coi schei in man, adesso so già che pochissime volte non rimpiangerò i soldi che ho speso. Perciò quando m'hanno regalato "Rally At The Texas Motel" di Ralston Bowles sono rimasto un poco freddino. Anche il rock'n'roll FM americano m'ha un po' spappolato i maroni. Ma mi sono sbagliato. Sono venti giorni di continuo che ascolto sto disco: "Rally At The Texas Motel". Io son fatto così: se una roba mi piace non ne vado più fuori.  Di continuo, in particolare la canzone omonima. Minchia, un miracolo che un disco di rock'n'roll mi mandi fuori di testa come una volta mi sparava fuori "Just Another Sunday In Hell" dei Blasters. Ma c'era una cosa di cui non avevo tenuto conto: CHI mi aveva regalato il cd di Ralston Bowles. L'uomo bianco più vicino al nero che abbia mai incontrato: L'Allodola, Il Blue Jay. Ciò che Dio ha mandato in Italia per far capire a tutti noi poveri baluba, con la sveglia al collo e l'anello al naso, che cos'è il blues. CATFISH.

La prima volta che seppi della sua esistenza fu sul Mucchio Selvaggio. Migliaia di anni fa. Lessi di una trasmissione radiofonica che si chiamava "Trouble No More", da Radio Flash di Torino, condotta da due che si chiamavano CATFISH & Kowalski. Roba forte. Roba blues. Ma io mica potevo ascoltarla dal Veneto, mica c'era lo zapping, lo stalking e lo streaming. In Veneto la Roba Forte mica s'ascoltava. Poi lessi di LUI in un libro intitolato "Nessuna Cortesia All'Uscita" di Massimo Carlotto, in cui faceva la spiritual guidance, una roba tipo il dee jay di "Punto Zero", per Marco Buratti, l'Alligatore. Poi LO ascoltai appena uscito dal lavoro, alle tre di mattina di un sabato, mentre trasmetteva la Roba Forte da Rai Stereonotte: "Sono Catfish e vi trasmetto la Roba Forte di Chicago Illinuà...". Miiinchia, lo stesso Catfish di "Trouble No More". Miiinchia, Dio Fa, Incredibile. E poi cominciai a scrivere per il Blues e quando scrissi il primo racconto radiofonico per la rivista: "RADIO DAYS. I Giorni della Gloria Radiofonica" fu la prima persona, senza conoscerlo (fu il direttore del Blues a passarmi di sfroso il suo indirizzo mail), a cui spedii il pezzo. Una settimana dopo, di sera, squillò il mio cellulare, da un numero sconosciuto: "Sei Ballestracci. Io sono CATFISH. Ho letto la tua roba. Sì, sì, mi sembra abbastanza forte. Bravoballe". E poi mi racconto di John R., della WLAC, della WDIA, della WROX...Roba che io conoscevo perchè avevo studiato, mentre lui la conosceva da sempre, da appena nato perchè Dio gli aveva dato una consegna: "Anche se nessuno nasce imparato, Dio Fa, tu nasci imparato perchè devi scendere tra quelli con la sveglia al collo e l'anello al naso per insegnare loro il Blues. Hai capito? Tu non avrai nome. Niente nome, te ne daranno tanti come a me, ma tu in realtà sarai solo CATFISH. Cerea neh!. Arvutze". Così io decisi di essere suo discepolo e quando mi fu possibile lo volli nella terra dei baluba. Presentò a Castelfranco Veneto il suo libro "Blues", che Dio stesso gli ordinò di scrivere perchè fosse l'unico testo credibile in italiano per spiegare l'incredibilità del Blues. Poi il giorno dopo si commosse sulla strada per Zibello alla vista della Bassa. CATFISH quasi, quasi si mise a piangere e capii che un uomo, per essere tale, deve riuscire pure a commuoversi. Fummo insieme a Bellinzona, a Rovigo, con "Denti da Coniglio" Bacco, una delle poche creature splendenti di luce abbagliante nel fosco sottobosco blues italiano. Attraversammo insieme pianure e montagne. Lo vidi aprire varchi dove prima c'era la roccia solo ancheggiando e canticchiando: "You Got To Move From There...babyrock...". Io stavo sempre un passo indietro, cercando d'imparare la magia. Mi comprai persino i ray ban con le stanghette pieghevoli d'alligatore per essere come lui. Inventò pure le proprietà omeopatiche del blues e i musicisti diversamente bianchi. Prima di CATFISH nel paese dei baluba non c'era niente. Solo professori universitari che capivano bene e spiegavano cosa pensasse un contadino del Mississippi negli anni 30. L'ultimo show che ricordo di LUI è un vero proprio sermone con levitazione, come nei libri di Lomax, e trance, durante una serata con Massimo Carlotto e gli Holy Smoke. "Perchè il Blues non vi abbandonerà mai. Penserete di esservi liberati di lui, ma lui sarà lì alle vostre spalle. Il Blues non morirà mai. Tutto morirà, ma il Blues non morirà mai!!!!!". A un paio d'anni di distanza c'è ancora chi mi viene a chiedere di LUI. Gente che non s'interessa al blues, ma che ha cominciato ad ascoltarlo per via del suo sermone. "Ma tu che lo conosci....E' proprio così? Ma davvero è proprio così....". Io li guardo con occhi fiammeggianti e dico: "Voi non state parlando di un uomo...E neppure di un semidio....VOI STATE PARLANDO di
CAAAAATFIIIIIIIIIISSSHHHHHHH!!!!!!!".

mercoledì 1 giugno 2011

FINALMENTE: LE TINARIWEN E IL BLUES, ANNESSI E SCONNESSI.

Io mi vergogno. Dopo aver ascoltato "Talkin' Timbuctou" di Ali Farkà Tourè & Ry Cooder non sono andato in visibilio, tantissimi anni fa. Era un casino, perchè quelli che leggevano il Buscadero e altri giornali barricaderi dicevano e ti facevano pensare che se non ti piaceva quel disco non capivi proprio un cazzo di musica. Il problema era che ero giovane e che, perciò, dovevo essere en avant garde. Perciò l'ho ascoltato e riascoltato, ma gnente da fare. "Talkin' Timbuctou" era piacevole, forse, ma non è che mi buttassi per terra e gemessi dalla commozione. Insomma io e la musica africana non siamo mai andati tanto d'accordo. Poi a San Gallo, il giorno che distrussi il vetro del pulmino, Justin Shoaw passando davanti a un manifesto di una manifestazione che includeva i Tinariwen mi fece: "Oh bel! T'è mai scultè i Tinariwen...Son propri fort". Passarono due anni di Mississippi Hills Blues e il mio abbandono del blues praticato dal vivo, prima che m'imbattessi in un negozio di Mestre, il luogo dove Venezia incontra il Resto del Mondo, in due cd dei suddetti: "The Radio Tisdas Session" e "Aman Iman". Quando li misi su fu come se Rocky Marciano si fosse incazzato con me: una continua tempesta di pugni in bocca. Erano meravigliosi: non i pugni, i Tinariwen. Erano come le ostriche: sentivi, davvero, l'Africa e il Tenerè. Video, video e video su youtube. Poi anche il DVD del loro concerto a Londra. E poi "Le Festival du Desert" a Essakane, il video non davvero, che ci vogliono una valanga di soldi per andarci. E poi le robe che posta Silvano Montagnoli. E poi il desiderio d'andare a Essaouirà per vedere l'Oceano e ascoltare la musica touaregh. Sono stati i Tinariwen a farmi tornare la voglia di andare a vedere com'è davvero la musica, come nel 1994 desideravo da accopparmi andare nel Mizzhippy. E' il loro modo di suonare che non è tipicamente africano, ma incrociato nella danza e contradanza che non riesco proprio a spiegarmi, con Mano Negra e Junior Kimbrough che ha buttato giù la mia porta dell'Africa. Come diceva una che conosco: "Ogni porta ha la sua chiave". Ora li ascolto tutti: Alì Farka Tourè e sogno sullo studio di registrazione dove ha registrato "Niafunkè", Le Tartit, Rokia Traorè e persino la musica dance africana. Ho veramente le budella di fuori come Salgari all'inizio di "Disegnare Il Vento" di Ernesto Ferrero. Non so quanti anni dopo posso dire: "Oh! Adesso mi ascolto Talkin' Timbouctu". Ho un solo rammarico. Anche se andassi Al Festival du Desert, capirei fino ad un certo punto. Io sono un bianco di Castelfranco Veneto, non un touaregh di Tissalit e neppure un nero di Clarksdale. Una volta avrei potuto dire di avere il blues dentro. A quasi 50 anni evito di dire simili puttanate. Mi piace molto il blues e la musica africana, ma sono bianco di Castelfranco Veneto. Fortunatamente, aggiungo, che essere touaregh o nero di Clarksdale è dura. Ben dura.

domenica 22 maggio 2011

SMETTO SE ME NE DAI UN PO' (aka IL SALONE DEL LIBRO BLUES)

Betti è sempre tossica. Ti dice "Smetto se me ne dai un po'". Come fai a dirle di no? "Betti Tossica" dei Prozac+ è un capolavoro, che spiega molte cose, anche quello che sto per scrivere. E' persino una canzone chiaroveggente.
Ho sempre sognato di andare al Salone del Libro di Torino. Tanto che quando mi sono trovato di fronte al Lingotto, dentro i cancelli, volevo inginocchiarmi e baciare per terra. Per fortuna Luigi Tempera me lo ha impedito. "Vabbè che ieri abbian bevuto, ma hai cervello ancora alcolizzato Dio Fa?". Anche Luigi Tempera è chiaroveggente perchè due ore dopo che ero dentro al Padiglione 2 non capivo più un'ostia. Frantumato da presentazioni che si incrociavano per aria, addetti ai lavori, pubblico, brusio del capannone, la porchetta attaccata al Caffè Letterario. Ma anche Il Salone del Libro svezza le persone. I ragazzi (le ragazze, per la precisione) dello stand dell'Instar Libri mi guardavano con compassione pensando: "Dio Fa, è solo il primo giorno e guarda com'è ridotto...". Poi dopo sette ore dentro al Salone che m'avevano ridotto alla flebo di glucosio, mi sono ringalluzzito perchè c'era da fare la presentazione. E' la sindrome di quelli che salgono sul palco: sei fiacco-fiacco e poi, improvvisamente, parte la bomba-palcoscenico. Io e Gigitempera ci guardavamo un po' increduli: ci sberlottavamo pure. Avremmo fatto lo spettacolo dove ora erano seduti Milena Vukotic, Giancarlo De Cataldo e Marco Messeri. Mica pippe, ma noi vecchi leoni grigi del blues italico mica abbiamo avuto paura. Ghe sboccio o Dio Fa. Siam saliti con Lorenzo Tamagnone e via ventre a terra. L'unico problemino era che affianco c'era il procuratore Caselli che faceva un nonsochè sulla mafia: quella roba che vessa il territorio, non so se avete presente, che fa sentire gli altri piccoli, piccoli, che tanto comandan loro. Dovevamo convivere, ciò. Il destino ci aveva collocati uno accanto all'altro, cioè, per la precisione, noi accanto a Caselli. In effetti il rimbombo che proveniva da di là dava un po' fastidio. Un bel po' fastidio, ma, insomma, Caselli è Caselli e noi siamo noi, ci si doveva adeguare. Solo che poi è saltato fuori uno, in giacca e cravatta, a dire che rompevamo i coglioni all'antimafia e dovevamo abbassare i volumi. Il fonico ha abbassato, ma, sinceramente, non so come i 30 che eran da noi potessero ascoltare, perchè il casino di là era notevole. Ma, evidentemente, facevamo ancora paura all'antimafia e l'uomo in giacca e cravatta è tornato per dirci che facevamo troppo casino. Che abbassassimo. Pareva di essere in una di quelle birrerie che quando vai a suonare, stai ancora scaricando gli strumenti e ti dicono di abbassare. E' uscito ancora un'altra volta per dirci di piantarla che davamo fastidio a Caselli, ma ha sfortunatamente incontrato Marta Chiantore che gli laconicamente riferito che: "sì, in effetti noi vi stiamo dando fastidio, ma anche voi state dando fastidio a noi". L'uomo in giacca e cravatta s'è dileguato come i palloncini nei cartoni animati, quando vengono bucati, o come un casperino spaventato. Un celebre scrittore presente alla scena ha sancito l'episodio con una frase da bassorilievo: "Meno male che ci sono i giovani che riescono a mandare affanculo qualcuno quando c'è da mandarlo...Noi non ci riusciamo più". O ancora: "Cosa vuoi, oramai le persone sono solo giaccaecravatta...". Insomma, Alla fine di un giorno noioso, siamo riusciti a uscirne vivi e contenti, che Il Salone nonostante la diatriba se l'Antimafia sia la Mafia o viceversa, era per noi tre, Lorenzo, Gigi e me, un sogno realizzato. Io, davvero, ero distrutto da quel venerdì 13 maggio al Salone: il casino, i libri, i 250 spettacoli e presentazioni al giorno che non sai ndo cazz andare: Celine o Pandiani? Margherita Oggero o De Cataldo?, il rimbombo, i giaccaecravatta, come, non c'è una cassa-spia e noi come facciamo che dobbian suonare? Il Martini vermouth dry dello stand Martini, cazzo, Einaudi sempre piena e non ti fanno manco lo sconto sui libri. Insomma, Alla fine di un giorno noioso, ero lesso. Sono andato a dormire e che nessuno mi parlasse più del Salone del Libro. Il rumore di Piazza Cattaneo, proprio di fronte al motor-village, m'ha risvegliato. Ho aperto gli occhi davanti a Torino e il primo desiderio è apparso chiaro. "Devo andare subito al Salone. Voglio comprarmi questo e questo. Devo parlare assolutamente con quello..." Voglio vedere i libri. Voglio vedere i libri.
Betti è sempre tossica. Ti dice "Smetto se me ne dai un po'". Come fai a dirle di no?.

lunedì 9 maggio 2011

DIO CHE SUONA LA FISARMONICA

Uno dei miei più importanti incontri musicali è stato (ed è) Marcelo Zallio. Pianista e diavolerista tastieristico di Tapiales in Argentina. Da qui il soprannome di gauchito de Tapiales, con cui è universalmente conosciuto. Da lui ho appreso cose buone, ma anche una certa attitudine ad essere un pochetto porteno, anche se, a rigore, Tapiales è fuori dalla General Paz, che consente a un boarense di effigiarsi del titolo di agrandado de mierda, cioè porteno a tutti gli effetti. La mia portenidad è derivata dal fatto che ho fatto mia la teoria che sostiene che "il tango si suona col bandoneon, la fisarmonica è per los boludos". Mi sono talmente immerso nella portenidad che sono arrivato a sostenere che il solo strumento che potesse sostituire il bandoneon nel tango fosse l'armonica diatonica. Ciò m'ha portato, un po' d'anni fa, a trascurare con sdegno un concerto nella biblioteca del mio paese che proponeva tanghi suonati da un fisarmonicista. "Il tango si suona col bandoneon, Cristodundddio". Solo che il fisarmonicista si chiamava Simone Zanchini e io mica sapevo chi fosse davvero Simone Zanchini. Solo un po' di anni dopo, attraverso Roberto Scalabrin, sono arrivato a sentirlo suonare, in una prova con la Banda di Castelfranco Veneto, un paio di pezzi suoi: Caffè Finale e Moreddu. Pochissimi minuti, ma dovevo andar via a suonare, ma quei pochissimi minuti mi son bastati per capire che avrei fatto meglio ad ascoltare piuttosto che suonare. Caffè Finale, in particolare, m'era rimasta in testa, ma Zanchini suona sempre in giro per il mondo e mica ricapitava tanto spesso d'incrociarlo. L'ho rivisto un po' di settimane fa in quartetto e poi in "Better Alone", la sua performance in solitudine e mi ha mazzolato per bene. Non sto a raccontarvi quello che è successo o cosa ho provato che tanto le sensazioni di uno le prova solo quell'uno, ma a un certo punto delle due serate mi sono ritrovato con le lacrime che scendevano. L'ultima volta che era successo era stato a un concerto della Oracle King Blues Band e m'ero emozionato perchè era tanto tempo che non li sentivo suonare. Era probabilmente la famosa nostalgia delle nottate emiliane. Ora invece, con Simone Zanchini,  erano dei particolari momenti a fregarmi. Ogni tanto seguiva le note della fisarmonica col fischio: un fischio dolce, romantico, proprio dietro ai duecentocinquantamila tasti e tastini delle robe di Castelfidardo. E lì cascava l'asino. Non so cosa mi prendesse e la lacrime venivan giù, furtive, dagli angoli degli occhi. E poi ho comprato i cd. "Be Bop Buffet" con Frank Marocco. "Spanish Song" di Charlie Haden è da ascoltare per grattarsi la testa pensando alla frase "Il tango si suona col bandoneon, Cristodunddio". Si gratterebbe la testa anche Enrique Santos Discepolo e direbbe: "Ma magari noi portenos ogni tanto una cazzatina la diciamo. Una ogni settant'anni, mica di più, ma la diciamo". Ero talmente sconvolto per aver dovuto ammettere che m'ero sbagliato che sono sceso nel camerino dove Simone Zanchini si cambiava che ho dovuto dirgli, non m'è venuto altro, "Tu non sei mica tanto a posto!". Lui m'ha guardato con la sua barbetta spiritata e m'ha fatto: "Sei mica il primo che me lo dice".

domenica 1 maggio 2011

UNA STORIA BLUES ITALIANA: IL CARDINAL RAFFAELE BISSON

Il blues è la malattia, ma anche la cura. Il blues è omeopatico. (Edoardo “Catfish” Fassio)

Erano gli anni ’70, più vicini agli ’80, però. Forse 1978 o 1979 e a me, per qualche motivo che non so proprio spiegare, piaceva il blues. Non so neppure di preciso che tipo di blues mi piacesse. Il blues in generale: il più generale possibile. Il materiale blues di cui disponevo era registrato con un portatile Grundig dalle radio private locali, che erano nate solo tre anni prima e che furono davvero una rivoluzione. L’idea era che tutti potessero trasmettere ciò che pareva loro, bastava avere un trasmettitore e il gioco era fatto. Non avrei sennò potuto  registrare “I Can’t Be Satisfied” e “Pain In My Heart” degli Stones, perché non c’era spazio per roba simile nei palinsesti della radio nazionale. Un pomeriggio di quegli anni là, da una stazione beccata per caso che si chiamava Radio Babilonia, tanto per intenderci sul tipo di emittente, qualcuno trasmise l’intero concerto di un duo di blues che ci dava sotto da matti: Cocco & Bisson. Lo speaker ne parlava come di due pionieri della misteriosa musica afro-americana, che di altri in giro per l’Italia ce n’eran pochi e diceva pure che questi due suonavano un sacco in giro per il Veneto più vicino a casa mia, che era davvero importante perché a quell’età mica potevo avere la patente. Fu così che una sera, in un locale all’aperto del mio paese, vidi per la prima volta all’opera Cocco & Bisson. Rimasi a bocca aperta per tutto il concerto, anche perchè quello più alto, che suonava la chitarra e che cantava, raccontava storie di ‘stì posti chiamati Mississippi e Chicago e di tizi che avevano dei nomi strani: Leroy Carr e John Henry che aveva qualcosa a che fare con un treno. Mica avrei mai pensato un giorno di avere qualcosa a che spartire con loro: erano troppo avanti per me e i posti di cui parlavano io neppure li immaginavo. Bisson soprattutto pareva saperla molto lunga e così quando cominciai a scrivere interviste per un giornaletto di musica da quattro soldi mi riproposi di capirne un po’ di più di stò tipo. Riuscii a trovare il suo numero di telefono e lo chiamai. Venne a prendermi alla stazione ferroviaria di Cittadella con una 127 e mi portò a casa sua e lì mi parlò del blues: dei Sonny Boy, di Andrea Cocco, di Elmore James, di Toffoletti. Di tutto quello che immaginavo potesse voler dire quella parola, insomma. Rimase impressionato, credo, dal fatto che io non prendessi appunti e che, alla fine, ciò che avevo scritto era proprio ciò che aveva detto. Per questo motivo, vent’anni dopo, mi telefonò e mi disse: “Ciò Marco, ghe sarìa Marino Grandi che ga bisogno de qualcuni che scriva sul Blues. Mi ghe go fatto el tò nome, te podarìa ndar ben?” (Marco, c’è Marino Grandi che cerca qualcuno che scriva sul “BLUES”. Gli ho fatto il tuo nome. Ti potrebbe andare bene?). In quei vent’anni erano successe tante cose, davvero tante, sia per lui che per me.

Per quanto mi riguardava avevo cominciato a suonare e, per forza, dovevo trovare dei punti di riferimento, non solo meramente musicali, che mi facessero capire qualcosa. Nessuno meglio di Raffaele poteva esserlo. Se potevo andavo a sentirlo suonare. Dopo un concerto in un locale di Bassano del Grappa gli chiesi: “Ma quando che te canti, te sighi pi che cantar…” (Quando canti, urli più che cantare). Bisson rise, con quel modo un po’ diabolico che aveva di ridere. “Ciò. In Italia c’è solo Claudio Bertolin che può cantare il blues come i mori. Non ce ne sono mica altri che hanno quella voce, anca mi me tocca sberegar par parer un poco moro (mi tocca un po’ gridare per sembrare appena, appena nero)”. Feci subito mio la sua filosofia dello screamin’ the blues, cosiccome feci subito mia la sua opinione su Guido Toffoletti, controverso bluesman veneziano di cui, quasi sempre, si finiva per parlare. Opinione che mi fece ben capire come, aldilà della musica, vadano considerate le persone a tutto tondo: “Ah sì! Ho sentito dire di tutto su Guido. L’unica roba che posso dir è che è stato l’unico a portar in giro il nome Cocco & Bisson, a passarne i indirissi dei locali. E’ uno che si è dato da fare per il movimento. Tanti parla, parla ma noi fa gnente par chealtri (molti parlano, parlano ma non fanno niente per gli altri). Guido si è dato da fare anche per noi. E questo me basta par pensarghine tanto ben. Punto”.

In quei vent’anni era soprattutto accaduto che Andreino Cocco era incorso nel misteriosissimo “pneumatorace”, ancora oggi non so precisare meglio cosa e perchè gli fosse accaduto, che lo aveva allontanato dalle scene per un sacco di tempo e Raffaele aveva battuto la strada con altri bravi armonicisti che avevano trovato in lui una sorta d’anfitrione: il suo amico di gioventù, Giovanni Lunardon, tanto bravo cantante e armonicista, quanto schivo e modesto da non aver mai beccato l’abbrivio dell’ italian harp world, e Marco Pandolfi che, pur essendo altrettanto schivo e modesto, è rimasto travolto dal suo enorme talento e dal suo gusto diatonico, tanto che, partendo da Raffaele, è arrivato ai santuari di Memphis, mantenendo però un grandissimo rispetto, al limite della venerazione, per “Il Cardinale”, il nomignolo di Bisson, e per “Il Vescovo”, Claudio Bertolin. Loro due, Raffaele Bisson e Claudio Bertolin, hanno  davvero rappresentato l’autentica università bluesistica veneta:  hanno cresciuto tutta una generazione di praticanti e di alchimisti del blues e da questi sono sempre considerati una sorta di maestri venerabili. Hanno pure suonato spessissimo insieme nella Downhome Blues Band, con Riccardo Crivellaro alla batteria e Massimo Durante al basso, e in duo, in acustico, in spettacoli semplici, che però hanno colpito per intensità spettatori per nulla abituati al blues, tanto che molti andavano a chiedere chi fossero quei due impossesai (posseduti) che stavano suonando. E l’esperto, con sguardo sapiente e, al tempo stesso, noncurante, rispondeva: “Sono Claudio Bertolin e Raffaele Bisson, no ghe ne xe altri in Italia come lori (non ce ne sono altri in Italia come loro). Punto”.

Non si diventa “Il Cardinale” per caso e, girato il gatto dall’altra parte, non tutti possono vestire la porpora. Raffaele l’aveva indossata perché oltre ad aver battuto l’Italia su e giù insieme al blues quando noi ancora ascoltavamo l’Equipe 84  o i Genesis, oltre ad aver introdotto il Bisson pattern - il modo selvatico di cantare e suonare che possiamo apprezzare in ogni minima traccia di “Break Down”- era anche e soprattutto il grande custode della memoria enciclopedica del blues. Se qualcuno, preso da improvvisa fregola, voleva conoscere qualcosa di, che so, Lucille Bogan o Papa George Lightfoot bastava che si mettesse in contatto con Bisson e veniva aperta la scatola da cui saltavano fuori mori de ogni canton dea Merica (neri da ogni parte degli Stati Uniti), dagli Appalacchi fino al Deep Ellum di Houston, che si rincorrevano fino a creare una moltitudine di chitarristi e armonicisti che nessuno aveva mai sentito nominare. Raffaele era “Il Cardinale” perché conosceva tutti i segreti della chiesa del Blues: era l’ambasciatore in Veneto del Grande Padre che stava a Milano. Ma come ogni porporato che si rispetti aveva anche polso e capacità miracolatorie. Non posso dimenticare il suo intervento in un’intricata faccenda di compensi non pagati da un comune dell’hinterland padovano. Era stato organizzato un festival blues in cui s’erano esibite parecchie band venete e persino i Max Pandi Chatu-Kings, ma dopo un anno nessuno aveva ancora visto il becco d’un quattrino. S’era tentato in diversi modi di risolvere la questione, ma nessuno era riuscito a impensierire minimamente l’ufficio ragioneria del comune, tanto che s’era pressochè deciso di lasciar perdere. A quel punto Il Cardinale s’alzò e agitando la mano che indossava l’anello pastorale disse: “E no che no assemo perdar. Vago mi dal sindaco…”. Raffaele Bisson partì di buon ora la mattina dopo e si recò in visita dall’autorità. Come nell’incontro tra Papa Leone I e Attila nessuno saprà mai cosa si dissero i protagonisti, la verità rimane gelosamente custodita nei sacri palazzi, ma un mese dopo l’appuntamento ogni musicista disponeva di quanto stabilito nel proprio conto corrente. Un altro misterioso intervento del Cardinale riguarda l’incisione di “Break Down”, il cd del 2004 di Cocco & Bisson, uno dei cd che come “Blues Is A Lonely Road” di Claudio Bertolin e “I Don’t Want To Take Nothing With Me When I’m Gone” di Angelo Leadbelly Rossi, segnano una linea di demarcazione nel mare magnum del blues italiano. Ad un certo punto delle sessioni di registrazione Raffaele e Andrea decisero che, in almeno un po’ di canzoni, avrebbe potuto starci bene un batterista, ma di batteristi almeno un pochetto pratici in quel frangente non ce n’era manco uno, perciò acchiapparono il primo di passaggio nello studio, tal Renato Gallo, che Andreino Cocco giura essere stato null’altro che un batterista di liscio. Ciò che viene fuori dalle cinque tracce con batteria di “Break Down” è assolutamente incredibile: pare che Renato Gallo non abbia fatto null’altro nella sua vita che ascoltare canzoni di Doctor Ross o batteristi delle colline del Mississippi e, per quanto io stimi Cocco, credo che il drive decisivo debba per forza essere stato trasmesso da Raffaele grazie ai suoi sperimentati metodi pastorali.

Se si voleva movimentare una cena blues era necessario invitare al medesimo desco Raffaele Bisson e Marco Ballestracci. Le acque cominciavano a intorbidarsi sin all’inizio, quando il secondo per salutare il primo s’inginocchiava e gli baciava l’anello. “Areo Baestracci, no sta mia cumissiar a fare el mona” (Ballestracci non cominciare a fare lo stupido). Ma la tempesta gonfiava davvero quando, immancabilmente, ad un certo punto della cena sempre il secondo buttava lì sul tavolo il guanto di sfida: “Secondo me Blind Willie Mc Tell e Lonnie Johnson erano solo degli hillibillies neri, una roba tipo Little Richard, solo un po’ più roots”. A quel punto gli occhi di Raffaele Bisson lampeggiavano d’una luce sinistra e dopo un paio di brontolii si scatenava la tempesta. Cominciavano a fioccare giù gli improperi più inenarrabili, popolati da musicisti che scuotevano l’aria, come prima, dagli Appalacchi al Deep Ellum di Houston. Persino Howlin’ Wolf, periodo Sun, scendeva minaccioso a minacciare l’arciprete che sventolava la tonaca del Cardinale. Quando la tensione era davvero al massimo e stava persino per apparire Little Walter Jacobs, Raffaele Bisson si metteva a ridere, con quella risata che chi l’ha fortunatamente conosciuto ricorda benissimo, e diceva: “Dai portame naltra fetta de torta che sto dolse se proprio bon” (Forza portami un’altra fetta di torta che questo dolce è proprio buono). Abbiamo litigato anche durante l’ultima telefonata che gli ho fatto, mi pare discutessimo sul blues italiano, perché, come sempre, avevamo opinioni diverse sulle cose. Messo giù il telefono mi sono messo a ridere perché ho pensato che ci siamo sempre accapigliati per un qualche motivo bluesistico, ma poi quando è stato il momento di dare il nome ai nostri figli, nati a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, Raffaele l’ha chiamato Nazzareno ed io Emanuele.

Io credo che le persone  continuino a vivere in qualche modo. Ricordo bene le ultime telefonate con Gianni Mangione e le chiacchierate con Pier Robbiani. E’ il ricordo che continua a farle vivere. Al funerale di Raffaele, Anita, sua moglie, ha chiesto a Marco Pandolfi che passassimo a trovarla, perché, inevitabilmente, si finisce per parlare di blues e tutti quegli sproloqui, in qualche modo, fanno in modo che Raffaele torni a dire la sua. Raffaele, però, non occorre rievocarlo. Un po’ di Raffaele vive dentro a Claudio Bertolin, a Riccardo Crivellaro, a Paolo Cerato, a Marco Pandolfi, a Giovanni Lunardon, a Andreino Cocco. E un po’ anche dentro me.

Dalle note di “Break Down”:
Andreino e Raffaele ringraziano babbo e mamma per averci messo al mondo anche se non nel posto giusto!

martedì 26 aprile 2011

JUNIOR KIMBROUGH e LA MUSICA CHE GIRA INTORNO (MUSICA 90 SESSIONS)

Ora io non so cosa possa pensare uno che ascolta Junior Kimbrough. Magari non la prima volta, magari la quindicesima, pescandolo da un panorama di cd disseminati sul pavimento che rasenta tutto lo scibile bluesistico. Beh! Per quanto mi riguarda ho pensato un po' di tempo fa: "Mah! A me sto blues pare proprio strano. Che strano posto devono essere le colline del Mississippi". Ma finchè suoni come un forsennato in tutte le bicocche che possono immaginare di proporre del blues, mica ci pensi. Mica ci pensi che Junior Kimbrough non c'entra una beata mazza col blues. A me ci sono voluti i Tinariwen per spiegarmelo. Ibrahim (nel senso immaginifico della sua presenza) mi ha sventagliato un paio di canzoni delle Radio Tisdas Sessions e m'ha detto: "Ti ricordano qualcosa grande esperto di blues?". "Gesù bambino, ma chi cazzo suona qua Junior Kimbrough?". "No bello, non so neanche chi sia sto Junior Qualcosa, sono io che suono, ma ci sono tante altre band touaregh che hanno stò suono". E la domanda, improvvisamente, ti scrolla: "Ma come cazzo fa la musica del centro dell'Africa (Tissalit dove stanno i Tinariwen, sta proprio nel centro della pera dell'Africa) a essere finita tra le colline del Mississippi, senza che ci sia in giro per gli Stati Uniti, dalla Costa Atlantica fin lì, niente di simile alla musica di Junior Kimbrough?". Diciamo che già la domanda è qualcosa, ma per la risposta ci vuole minimo un annetto di studio da passare un po' in Italia, un po' a Essakane, Niafunkè, Bamako, Essaouira, Dakar e poi tra Oxford, Senatobia e Holy Spring. Ma io faccio il barista, mica l'etnomusicologo, perciò la risposta mica la posso trovare. La posso solo immaginare. Più che altro posso capire che se si vuole mettere la testa fuori dal blues si può rimanere travolti, per cui forse per questo pochissimi blues festival riescono a proporre qualcosa che non sia la solita rottura di marroni che rimane bella chiusa dentro i confini rassicuranti. Come dico sempre i Black Keys e i Tinariwen m'hanno rifilato una pappina  che m'ha buttato fuori dalle corde, come Firpo con Jack Dempsey, ma al contrario di Dempsey non riesco a risalire sul ring. E' Junior Kimbrough che m'ha fregato. Se non c'era lui ero ancora tranquillo a fare piripipì con l'armonica in RE sui palchi. Se non c'era lui con la sua musica uguale a quella dei Tinariwen non mi sarei chiesto perchè e non sarei impazzito su un libro come MUSICA '90: VENT'ANNI di SUONI E RITMI DAL MONDO della Allemandi Editore, dedicato alla memoria di Giampiero Gallina, fondatore, appunto, della rassegna MUSICA '90 di Torino. Dentro ci sono un sacco di reportage su musicisti che non conosco, oppure che conosco di nome, ma che non ho mai praticato, ma che sono trattati come se fossero stati pescati alla fine di una ricerca tribolata. Come se qualcuno mi dicesse: "Guarda qua c'è tutto un mondo di musica. Serviti pure!". Minchia è un sacco più bello sapere che c'è un sacco di roba da sperimentare ancora, piuttosto che sapere che c'è un sacco di roba che conosci. E' fantastico sapere che non conosci un cazzo di musica, perchè ci sono ancora un sacco di cose da conoscere. E' come non morire mai. E' bello sapere che MUSICA 90 continua, che forse un giorno andrò a Torino a vedere un po' di quei concerti, o Essaouira o a Essakane e magari, forse, tornare a Clarksdale. Finchè non li ho visti tutti non potrò morire. E' davvero bello che Gianni Buscaglione, già protagonista di A PEDATE, m'abbia annichilito quando sono entrato in casa sua con lo scopo preciso di fargli scoprire i Tinariwen. Ha aperto una porta d'un mobile gigantesco pieno di cd di musica africana e m'ha sbattuto per terra. "Ascolti musica africana? Grazie al cazzo, musica africana. Ascolti musica dei touaregh dell'Est del Mali. Tutti a parlar di musica africana, ma hai una qualche idea di quanto sia grande l'Africa e di quanta gente ci suoni?". E' bello perchè abbiamo chiamato tutto MUSICA ETNICA, dimenticandoci che forse la musica etnica è il rock'n'roll, che forse è lo stesso motivo per cui qualcuno pensa di poter fermare l'immigrazione dei paesi poveri del mondo. Come per la musica, loro sono molti di più a farla.  Mi piace pensare a Louis Mourihno che dice: "chi sa solo di calcio, di calcio non capisce niente". Tutto ciò grazie a uno che di musica non ha capito una mazza, che stava a Holy Spring e che di nome faceva Junior Kimbrough.

martedì 19 aprile 2011

GARY BURNSIDE E IO (aka L'altra Faccia del Blues)

"Marco cosa fai in questi giorni?". "Mah...Sono in ferie dal bar". " Vieni a darci una mano?". "Cosa devo fare?". "Ci sarebbe un furgone da guidare". La frase "furgone da guidare" dopo l'incidente di San Gallo della scorsa puntata mi faceva venire i brividi solo a sentirla sibilare. Eppure da Parma, che pure avevano pagato il vetro, volevano che riguidassi il furgone da Salsomaggiore a Roccabianca e poi a Pero e dopo a Malpensa. "Minchia, mi cago addosso solo a pensare di guidare di nuovo il furgone...Ma chi dovrei portare in giro?". "I NORTH MISSISSIPPI ALL STARS, solo che hanno GARY BURNSIDE al basso". "Zio appoggiato al muro mentre fa la pipì, che pensa meno male che ho trovato stò muro senno mi pisciavo addosso! I North Mississippi All Stars? Gesù Benedetto dal Signur". Che voleva dire "Sì", in pratica. Ma io non sapevo che per quanto riguarda i North Mississippi non c'era nessun problema, anche se Luther Dickinson era stato proprio in quei giorni dichiarato ufficialmente chitarrista dei Black Crowes per l'imminente tournèe americana. I North Mississippi All Stars era un gioco da ragazzi portarli in giro per uno che s'era fatto un bel po' di giri col furgone della Oracle King Blues Band. Il problema era Gary Burnside. Quel ragazzo nero era d'altra pasta rispetto a Gwelel Kumba, per esempio, e neanche parente di Eric Deaton e Justin Showah. Gary Burnside è il prototipo del ragazzo raccontato da quelli che il blues lo fotografano davvero, senza tanta poesia e razzismo al contrario. Con frase trevigiana particolarmente azzeccata, Gary Burnside, figlio di Robert Lee Burnside, è la tipica rotta de cojoni per uno "regolare" che deve fare il road manager (che sembra una gran roba come lavoro, ma è solo quello che guida il pulmino e che ogni tanto fa da intermediario quando ci sono dei problemi). Ora io non so che tipo di problemi potesse aver avuto durante la sua infanzia sulle Colline del Mississippi e che tipo di screzi con i suoi 13 fratelli e, sinceramente, non è che m'interessasse particolarmente venirne a conoscenza. L'unica cosa che, a un certo punto, mi preoccupava era che tutti i suoi traumi infantili non ricadessero sul povero road manager. Certo, gli appassionati del blues mi guardavano con una certa invidia pensando che andavo in giro in macchina col figlio di Robert Lee, ma mica sapevano che quello voleva andare a puttane a ogni ora del giorno. Certo, gli appassionati del blues ammiccano quando il neretto vuole andare a puttane, fa parte della classica iconografia del blues, ma è diverso se sei tu, nel senso di io, che ce lo devi portare. "Cazzo, ma io c'ho i soldi" e mi sventolava sotto il naso un bel pacco di euro e io gli rispondevo: "Avrai pure i soldi, ma io c'ho voglia di dormire e non ho proprio voglia d'aspettarti mentre scopi fuori dal bordello....che poi non neanche dove cazzo siano i bordelli nella Bassa...che se fosse in Svizzera magari sarebbe più facile...Cosa faccio fermo un auto della polizia e gli chiedo dov'è il bordello?". Ci siamo tontonati per tre giorni con stà storia del bordello. E poi quando gli diminuiva il priapismo cominciava la fame. Stavamo inseguendo il furgone di Omar & The Howlers per le strade attorno a Milano, che se ne perdevo le tracce ero un uomo morto, e Gary attacca che aveva fame indicandomi i Mc Donald's. "Cazzo mica posso fermarmi, che se perdo il furgone davanti siamo defunti. Questa è Milano mica Holy Springs". Minchia, un casino. Ogni due minuti mi diceva che aveva fame, finchè Luther Dickinson, in dialetto veneto mi fa: "fermate par magnare, sennò qua a diventa veramente na rotta de cojoni continua...". Sfortunatamente l'albergo di Pero non aveva la cucina aperta, così si parte di domenica pomeriggio presto alla ricerca di un posto dove trovare da mangiare. Fortunatamente l'organizzatrice, in motorino, trova un kebab aperto e fa la scorta per tutti, ma appena Gary l'ha in mano sembra stia toccando una merda. Non vuole le salse dentro al kebab e si va via in furgone nella assolata e domenicale periferia milanese fino all'emporio per vedere se gli danno solo della carne, che il ragazzo deve crescere. Poi si arriva al concerto e Gary si ritrova senza magliette pulite. Lo porto nella mia stanza e gli faccio scegliere tra le mie t-shirt. Sceglie quella del DELTA BLUES MUSEUM di Clarksdale, la maglietta che ho voluto indossare quando è nato mio figlio Emanuele. Suona con quella e, dopo una notte che riesco solo a immaginare, visto che io sono rientrato in albergo solo col fonico, mentre i fratelli Dickinson e LUI si sono aggirati misteriosamente per Pero, ma di cui ho una testimonianza palpabile osservando gli occhi sfatti del portiere di notte, la mia maglietta non riappare. Guido fino a Malpensa e poi al momento dei saluti gli faccio: "Oh! Burnside, la mia maglietta cacciala fuori sennò ti faccio diventare bianco...".  Lui mi guarda e mi fa con la faccia più da culo che abbia mai visto: "Ma è sporca, volevo lavarla...". "La lavavi in Mississippi e poi la rimandavi, vero?". Ha sbuffato, deve anche avermi mandato affanculo, ha aperto la valigia e m'ha ridato la maglietta. Ho controllato che fosse proprio quella perchè un cazzone simile è capace di farti lo scambio e rifilarti quella d'un distributore di merda di Senatobia. Poi ci siamo abbracciati e l'abbraccio mi è parso vero. Mi dicono che si ricorda ancora di me. Oltre a questo mi vengono in mente due cose. "E tu che cazzo suoneresti?". Lo guardo e gli faccio, un po' dimesso, "l'armonica". "Ah!". "Si lo so, è uno strumento di merda. Tu suoni chitarra, basso e batteria....". "Si, però io l'armonica non la so suonare....". "Mi stai prendendo per il culo?". "No è che non ci capisco un cazzo dell'armonica, comincio a suonarla e mi rimbomba  tutta in testa...Non ci capisco un cazzo". "Ma vaffanculo!". "No, davvero, dell'armonica non capisco un cazzo!". La seconda, ed è la cosa che ricordo con più piacere, è quando è entrato per la prima volta nella mia macchina. Nel lettore cd c'era la colonna sonora di "Ghost Dog" di RZA del Wu Tan Clan. Cazzo, mi piace troppo quel film e quella colonna sonora. Partiamo e Gary Burnside mi fa: "Che cazzo di roba è questa?". "E' RZA del Wu Tan Clan". Sta un po' zitto. "Però, è una figata". Sta ancora un po' zitto. "Và che stavolta m'è andata bene. Quelli che m'accompagnano di solito mettono su sempre dischi di sto' cazz'e blues. Il Figlio di Burnside, DOBBIAMO mettere del blues. Cazzo si, mi piace, però sempre blues...che due marroni...Bella roba questa...Lo capiranno prima o poi che sta roba arriva dritta dal blues...". E gira la manopola del volume. Wu Tan Clan e strade della Bassa verso Roccabianca. Una gran bella sensazione.

venerdì 8 aprile 2011

UNA STORIA MISSISSIPPIANA IN ITALIA

Questo pezzo è stato pubblicato tre anni fa nella newsletter Blouisletter di Luigi Monge. Ricordo che lo scrissi volentieri e credo che dentro ci sia un po' di blues. Lo ripropongo qui, perchè da questa storia di musica forse nascerà qualcosa di nuovo, dopo La Storia Balorda.
  
      
MEMORIE DAL PULMINO

San Gallo è una bellissima città. Un gioiellino a due passi dal Lago di Costanza. Un perfetto prodottino a marchio Heidyland. Ma è STRETTA. Vacca ladra. STRETTISSIMA. Giuda Faust. Così va a finire che in Parazelsius Strasse prendo una curva stretta. Troppo stretta. Il vetro laterale s’appoggia ad un molto-medievale muro ed esplode in mille pezzi. Però rimane su. Tutto frantumato, ma rimane su. Fortuna che avevo scaricato i ragazzi in albergo subito prima. Il primo che incontro è Gwelel Kumba che, come al solito, va a cercare un mercato in cui girovagare. “Beh! Che succede? Hai una faccia da cane bastonato…”. Lo guardo e gli faccio: “Vieni a vedere…”. Lo porto davanti al pulmino e gli indico la catastrofe laterale. “Beh?! Che problema c’è?”. “Come che problema c’è…..C’è il vetro tutto frantumato, non si vede una beata mazza e fra un po’ viene giù tutto a sentire stò rumore sinistro…..” (Il rumore sinistro è quella specie di sfrigolio che pervade i vetri frantumati. Che ti fa capire che il processo di distruzione mica è finito. Che ne vedremo ancora delle belle). “Beh! S’aggiusta…In Mississippi s’aggiusta tutto….Chiama Justin Showah. Lui aggiusta tutto. In Mississippi mica si possono permettere un meccanico ad ogni rottura. Incollano, legano…La macchina di Eric Deaton, quella che è in fotografia dietro “Gonna Be Trouble Here”, sembra nuova, ma è tenuta su dal nastro….L’ha fotografata da un po’ lontano così non si vedono le aggiunte…..Giù nel Missi sono messi talmente male che prima di buttar via qualcosa bisogna sia proprio carbonizzata…Non hanno soldi e s’arrangiano….Pensa che Justin fa andare la sua macchina con un combustibile gratuito che fabbrica con un suo amico che lavora all’Ole Miss…Il suo amico è un chimico….E lo distribuiscono anche in giro agli amici…..”. “Facciadascienziato” Justin Showah esamina il vetro, tocca qui e là. Va a chiamare L. C. Ulmer. “Sai, L.C. ha fatto il meccanico quindici anni a Chicago e di cose ne sa….Meglio che dia un’occhiata anche lui…..”. Discutono un pochetto e poi Justin Showah mi guarda e mi fa: “North Mississippi Method…..Una decina di rotoli di nastro e ce la dovremmo fare…..”. “Sì ma fra due ore hai il concerto….”. “Prima si aggiusta….Aggiustare stò attrezzo è più importante del concerto…”. In Mississippi mica scelgono il nastro così. Come fosse una sciocchezzuola. Mezz’ora dentro una cartoleria. “Vedi Marco, scegliere il nastro giusto è importante, altrimenti della macchina di Eric Deaton sarebbe rimasto solo l’abitacolo….”. Dopo due ore il vetro è bello e a posto. Gli ultimi ritocchi Justin li da sotto lo sguardo vigile di L.C Ulmer seduto sopra un muretto molto svizzero. “Beh!….Mi sembra un buon lavoro Justin, parola di L.C., ora gli puoi dare anche un pugno e questo non va giù….”. Non abbiamo fatto il test. Ci siamo fidati. Uno che fatto il meccanico a Chicago quindici anni saprà il fatto suo.

Il pulmino è tornato in Italia. Il POD di Justin ha fatto andare in continuazione blues del Delta, John Sinclair e Ali Farka Toure. Ad ogni sosta L.C. mi raccontava una storia. Sul San Bernardino, guardando il panorama ha sospirato: “Ah! Come questo posto mi ricorda la California…..Si, sì la California…..Ho fatto un po’ di anni il boscaiolo in California….Vivevo in una casetta come quella (tipica casetta Heidyland stagliata sulla montagna) e ci scaldavamo con la legna…”. Durante un’altra sosta ha guardato con nostalgia un camion con rimorchio che sostava nella piazzola. “Ah! Che rimpianto di quando facevo il camionista…..Ho girato un sacco l’America col mio truck….Che bei tempi….Ogni tanto mi fermavo in qualche locale, tiravo fuori la chitarra e suonavo….Ma suonare e cantare non è il mio forte….Il mio forte è ballare…..Una volta ballavo fino alle 4 del mattino e smettevo solo se il proprietario riusciva a far smettere le ragazze che gridavano “L.C., L.C., L.C……” perché volevano che continuassi a fare il mio numero….. Ho cominciato a ballare nel Mississippi, prima di andare a Chicago….Stavo dietro ai muli in mezzo ai campi di cotone….Tornavo, mi lavavo e andavo a ballare…..Ballare mi fa andare fuori di testa, più di suonare e cantare….”. Intanto nel pulmino prende pure forma il titolo del cd di L.C.. “Beh!….Credo che il titolo più giusto del cd di L.C. debba essere “The Vegetarian Bluesman””. Justin Showah si riferisce inevitabilmente al fatto che L.C. mangia esclusivamente insalata e frutta accompagnate da acqua naturale. “Beh! Una volta il whysky lo distillavo pure. Il miglior moonshine che potevi trovare in giro…..Jimmy Reed s’è ubriacato col mio whysky e, se fosse vivo, se non avesse bevuto tutta quella porcheria che beveva, potrebbe dirtelo: il miglior moonshine in giro….Poi un giorno un medico m’ha detto di piantarla se volevo campare ancora qualche anno….Sono quindici anni che non tocco alcolici e, tenendo conto dell’età che ho – e qui si apre un capitolo scottante sull’effettiva età di L.C.- riesco ancora a ballare e a fare esercizi fisici……Roba così – e si mette a far flessioni nel bel mezzo della piazzola di sosta – l’hai mai vista fare da uno della mia età?”. Ora, il problema verte su quale sia la reale età di L.C. Ulmer. Le fonti ufficiali differiscono su questo fondamentale tema. Secondo la scheda giratami a suo tempo da Rootsway sarebbero 82. Secondo Justin Showah sarebbero 78. Secondo L.C. Ulmer in persona sarebbero 74. Ma, fondamentalmente, chi se ne frega?

“Io prego ogni mattina ed ogni sera. Prego il profeta e mi piace pregare. Mi dà forza”. Io guardo Gwelel Kumba coi miei occhi agnostici e lui li vede esattamente come sono. “Guarda che la religione è più di credere o non credere. E’ una specie di legame in cui riconoscerti. Prendi i bianchi giù nel Sud. Sono molto religiosi. Le loro credenze morali sono molto radicate. I neri nel Sud sono violenti, socialmente si stanno disgregando. Una delle vie di consolidamento potrebbe essere la religione. Non ti dico la mia, l’Islamismo, ma ti dico una qualsiasi religione. Una qualsiasi cosa che dia dei precetti morali ai quali attenersi. Ai neri d’America mancano completamente dei precetti morali. A voi viene da ridere quando sentite il numero di figli che ha avuto Junior Kimbrough o Big George Brock. E’ qualcosa che vi appare folcloristico. Ma non capite cosa c’è dietro. Dietro non c’è nessuna idea della famiglia. Come può un nero avere un’idea della famiglia quando fino a due generazioni fa poteva essere strappato dalla famiglia stessa e portato in un’altra realtà in cui doveva ricominciare da zero, lasciandosi alle spalle tutto quello che credeva di avere costruito?. La violenza che tanto stigmatizzate nei neri sta proprio in questo. Non hanno avuto legami durevoli fino a relativamente poco tempo fa e questo si ripercuote in queste generazioni tribolate. Non ci sono regole, non c’è nulla. Io spero e prego che, finalmente, troviamo delle regole morali che ci permettano di costruire qualcosa fuori dalla violenza. Spero che alla gente nera venga data finalmente la possibilità di costruire qualcosa. E’ difficile, ma è l’unica possibilità che i neri americani hanno”.

Wallace Lester è laureato in inglese. Suona la batteria in giro per le colline, ma il suo lavoro è un altro. In realtà. “Beh! Facevo il musicista professionista a New Orleans. Poi c’è stato Kathrina e tutto è diventato un casino. Son dovuto venir via. Mi hanno offerto un posto di insegnante di inglese a Holy Spring, Mississippi. Tutti nel Mississsippi conoscono la comunità nera di Holy Spring, per cui tutti rifiutavano il posto. E’ un posto problematico. Ti puoi ritrovare con una ragazzina di undici anni che aspetta un bambino avuto da nonsisachì e tutto nella classe diventa un casino. Poi, magari, la ragazzina non si fa più vedere e, se non pensi solo allo stipendio, devi andare a cercarla. Incontri la famiglia e capisci molte cose. Il Mississippi è un posto in cui, certe volte, è meglio non approfondire troppo. E’ un vaso di Pandora al contrario. Spesso, se non vuoi ammattire, è meglio lasciarlo chiuso. Fatto stà che nessuno voleva andare a Holy Spring. Io e mia moglie, che fa la batterista-cantante professionista, siamo andati ad abitare lì. E visto che i bianchi corrono via da lì, ci è capitata una casa coloniale a prezzo da ridere. Una specie di Rowan Oak di pietra. Per ora siamo lì. Abbiamo girato gli Stati Uniti. San Francisco a fare il fattorino e a suonare, poi New Orleans e adesso Holy Spring. La cosa bella è che nel Mississippi puoi suonare un sacco di musica. Beh! Sono in giro coi ragazzi adesso, ma puoi suonare anche country and western e anche del rock. Certo nei club di Oxford non è che ti paghino tanto, ti devi arrangiare con le mance e vendendo i cd. A Memphis puoi passartela meglio, ma ho come l’impressione che qui sulle Colline ci sia proprio il cuore del cuore della musica americana. Qui, sulle Colline, mi pare non ci siano finzioni. Un cd come quello di Gwelel Kumba, Afrissippi, poteva saltar fuori solo qui. Magari mi fermo a Holy Spring un bel po’”.


Justin Showah è il capo della compagnia. Da tutti riconosciuto in quanto tale, persino L.C. lo tratta da capo. Fa il musicista professionista. Suona il blues delle colline, ma anche country and western e non pare particolarmente traviato dalle differenze intrinseche che noi europei troviamo tra i due generi musicali. Nel cervello del suo POD ci sono pure Jimmie Rodgers e Johhny Cash e li ascolta proprio con gusto. Mica spacca il capello in quattro. “Sai, se c’è una cosa che non capisco tanto bene è come mai, con tutti i figli che aveva Junior Kimbrough, chi ha imparato il suo modo di suonare meglio di tutti e ne è il prosecutore è Eric Deaton. Questo ragazzo è proprio il suo erede. A vederlo non si direbbe, ma è proprio così. Junior gli ha insegnato a suonare la chitarra e il basso direttamente al suo juke-joint. Gli metteva a posto le dita sulla tastiera. Gli ha fatto imparare l’abecedario. “Gonna Be Trouble Here” sembra proprio un disco di Junior. Sono passati un sacco di anni, ma Eric continua imperterrito sulla sua strada. Deve essere che Eric è un ragazzo tranquillo mentre tutti i figli di Junior che conosco sono degli svitatoni. Bravi ragazzi per carità, ma proprio svitatoni. Deve essere quello il segreto…..Tranquillità, baby, tranquillità….”.

Eric Deaton è proprio un ragazzo tranquillo. Da me ha imparato, e me ne sarà grato per tutta la vita, che la pizza fredda non si mangia, manco scannati. Manco se sei a un passo dal morire d’inedia. Quando c’ha fatto l’onore di salire sul palco con noi per suonare “Tramp”, alla fine, s’è scusato perché aveva sbagliato il cambio. Ora, Junior Kimbrough mica cambiava in “Tramp”. Andava dritto finchè gli pareva e poi, così, quando gli girava….”You know…I’m born lover….”. “Tramp” si suona così, dritta fino alla prima curva. E la curva la vedi proprio quando hai il guard-rail addosso. Siamo noi italiani che facciamo quattro battute e cambio….Eravamo noi ch’eravamo sbagliati mica lui. Madonna mississippiana.