martedì 27 novembre 2012

UN RACCONTO PERDUTO E RITROVATO

E' difficile tenere un blog, come già dissi: potrei parlare di blues, ma è acqua passata, potrei parlare di libri, ma è ancora un tantino presto per via che aspetto gli exit-poll d'"Imerio". Perciò posto un vecchio racconto, più recente di quelli che avete trovato in "A Pedate", ma che parla dello stesso tema. Mi sarebbe piaciuto, se avessi conosciuto la storia, metterlo tra quelle 11 storie, ma è saltato fuori dopo che il libro era già entrato nella rotativa della Mattioli1885. Perciò lo faccio emergere ora, senza editing e senza niente, cosiccome è saltato fuori due anni e mezzo fa. Fate conto sia il dodicesimo racconto di "A Pedate".


IL RACCONTO D’UNA BATTAGLIA

Gli organizzatori erano persino contenti. Un parere neutro avrebbe testimoniato di non tanta gente in platea, ma, davvero per gli organizzatori non erano per nulla pochi. Per una serata infrasettimanale in una cittadina che pareva uscisse di casa solo per le funzioni domenicali, quella trentina di persone rappresentava un successo di cui raccontare in giro. Ma c’era dell’altro. La trentina intervenuta rappresentava quasi tutte le età e tutti, indistintamente, stavano a bocca aperta ad ascoltare il tizio che parlava. Come se discorresse su qualcosa di mai sentito. Eppure l’oratore, o come si vuol nominare quello che chiacchierando gesticolava sopra la pedana del cinema parrocchiale, aveva avvisato la platea.

 “Il calcio di cui vi racconto non è il calcio d’adesso. E’ un altro calcio. Badate bene non mi permetto di confrontare i calciatori d’allora con quelli d’adesso. Lo lascio fare a voi. Vi dico solo che fino al mondiale 1966 le sostituzioni non erano ammesse. Furono possibili due cambi a partita a partire dall’edizione 1970 della Coppa Rimet, quella giocata in Messico. Prima, chi cominciava la partita la doveva finire in un modo o nell’altro. Poi nei mondiali del 1966, Stanley Rous, il presidente della FIFA, che aveva orchestrato il torneo per fare in modo che, finalmente, l’Inghilterra  vincesse, venne colto dal rimorso. Oppure, è più verosimile conoscendo lo stomaco robusto di Rous, qualcuno gli fece notare che vedere Pelè, il più forte giocatore di tutti i tempi, zoppicare pietosamente durante tutta la partita Portogallo – Brasile dopo il terribile tackle di Morais all’inizio del primo tempo, era assolutamente scandaloso. “Passi che l’arbitro Mc Cabe non abbia espluso Morais, perché quello meritava l’intervento, ma quantomeno concedere l’opportunità della sostituzione ai brasiliani. Almeno quello”. Allora Rous ne convenne. A malincuore, ma ne convenne. Disse: “Dal 1970 comincìno le sostituzioni. Più per la fatica dell’altura di Messico che per altro..”. E il calcio cambiò. Come l’Avanti Cristo e il Dopo Cristo. Ci furono ancora partite eroiche, ma relegate alla prima metà degli anni ’70, quando ancora alcuni giocavano coll’idea del resistere fino all’ultimo respiro. Poi tutti si conformarono al calcio nuovo. Cosa significa calcio eroico? Non ve lo sto a specificare riga per riga. Vi racconto solo alcune storie di partite. Ancora una volta siete voi che dovete farvi un’idea di cosa fosse quel calcio e cos’è quello d’adesso. Se, casomai, siano lo stesso sport”.

E cominciò a raccontare di giocatori col capo bendato, di gente che rifiutò di disputare la prima finale del Campionato del Mondo in Uruguay per paura di uno che chiamavano “L’Uomo che Cammina” e di altre storie ancora che parevano piovute dai tempi di Enrico Toti e Gregorio Finimondi. Poi l’oratore, o come accidenti si vuol chiamare, disse che sir Stanley Matthews, l’ala destra inglese che giocò fino a 50 anni, sostenne che la partita più dura che egli avesse mai giocato fu Inghilterra – Italia a Highbury nel novembre del 1934: una partita che passò alla storia come “la Battaglia di Highbury”. “Ma” e poi sostenne un attimo di silenzio che pareva vibrasse nell’aria sopra le teste degli spettatori, “ci sono state un sacco di partite che hanno dato vita a vere e proprie battaglie campali. Io, dal canto mio, ho rovistato qui e là, tra vecchi giornali e discorsi che i pensionati fanno nei bar, e, ad oggi, questa è la partita più dura di cui abbia mai sentito parlare”.

“Nel 1938 la squadra che tutti s’attendevano e desideravano diventasse campione del mondo era una squadra che in Europa nessuno aveva mai visto. Forse per questo l’agognavano così tanto campione. Perché era forte attraverso le voci che, chissà in che modo, provenivano d’aldilà dell’Oceano. Era il vento che superava il mare che sospirava i nomi di Leonidas Da Silva, di Domingos da Guia, di Tim, di Zezè Procopio. I calciatori brasiliani venivano sognati. Tim faceva sparire la palla davanti agli occhi degli avversari esterrefatti, Leonidas rimbalzava da una parte all’altra del campo ad una velocità prodigiosa e talvolta s’esibiva in un funambolismo che in Sudamerica tutti chiamavano la “cilena”, ma di cui i brasiliani avevano cominciato a parlare come della “bicicletta” pur di non dar meriti alle “moscas” cilene. Si raccontava che Leonidas facesse come un salto mortale all’indietro riuscendo a calciare la palla con la testa sotto e le gambe per aria. Domingos, invece, era un difensore spietato, ma una volta svelta la palla all’avversario non si produceva nella pedata caratteristica del comune centromediano: un po’ precisa e un po’ in balìa della fortuna. No. Usciva dall’area con la palla al piede e la testa alta. Osservava le mosse dei compagni e poi si produceva nel lancio millimetrico che meglio li assecondava. Il Brasile era un prodigio portato dal vento e il vento era davvero molto amato dai francesi. Avevano esordito  a Strasburgo ed erano riusciti a piegare dopo i tempi supplementari un’ inaspettatamente valorosa Polonia. A dir la verità, finchè il campo era rimasto praticabile i brasiliani avevano surclassato i polacchi, ma poi un’acquazzone aveva inselvatichito il prato e i polacchi, più robusti, avevano preso il sopravvento. Era finita 6 a 5 con quattro reti marcate, nonostante il fango, dal fenomenale Leonidas. Ma, adesso, il tempo a Bordeaux era bello e contro la Cecoslovacchia i brasiliani avrebbero potuto esprimersi al meglio. Solo che i cecoslovacchi erano i vice-campioni del mondo. A Roma, quattro anni prima, avevano perso la finale contro l’Italia ai supplementari e per quanto i brasiliani fossero spinti dall’entusiasmo, la Cecoslovacchia era pur sempre una delle grandi potenze del calcio europeo: Planicka era sempre uno dei migliori portieri al mondo, Nejedly che era stato capocannoniere a Roma non era niente affatto schizzinoso quando si trattava dell’odore del gol e Puc, l’ala sinistra che aveva battuto Combi durante la finale, era sempre veloce, ma più esperto. Tutti avrebbero voluto trionfatore il Brasile, ma tra Bordeaux  e la semifinale di Marsiglia  c’erano di mezzo i cechi. I polacchi, nella partita precedente, avevano concesso molto spazio agli attaccanti brasiliani che, per questa ragione, avevano davvero sollazzato il pubblico, ma già dall’inizio i cecoslovacchi avevano fatto intendere che il copione questa volta sarebbe stato  diverso. I difensori non concedevano un metro ai funamboli sudamericani e questi, intrappolati tra calcetti e strattoni leggeri, s’innervosivano sempre più mano a mano che il tempo trascorreva. Dall’altra parte del campo Nejedly, nei primi contrasti, era  riuscito sempre ad aver ragione di Zeze’ Procopio  e imponeva l’intervento di qualche altro difensore in aiuto. Già dopo un quarto d’ora s’assistette alla prima scazzottatura tra Peracho e Boucek, ma l’arbitro Hertzke non prese alcun provvedimento perché si formò un cappannello di calciatori urlanti che gli impedirono di distinguere chiaramente chi fossero i proto-pugili  e sanzionarli alla bisogna. Fu più facile dieci minuti dopo. Nejedly lasciò sul posto ancora Zezè Procopio e Machado arrivò di corsa, diritto sul piede destro del centravanti che scrocchiò sotto i tacchetti del brasiliano. Nejedly rimase a terra a lungo col piede che il massaggiatore considerava, scuotendo la testa, piuttosto fratturato, mentre lì a fianco si formarono dei tafferugli, con Zezè Procopio particolarmente combattivo e sbraitante. Una volta che gli assembramenti si sciolsero l’arbitro ungherese lo afferrò per un braccio con un’aria minacciosa e gli indicò gli spogliatoi. Rimanere in dieci non era affatto una bella cosa, ma non era così tragica. Non erano affatto in inferiorità numerica perché Nejedly, pur rimanendo in campo, col piede in quelle condizioni si limitava a trascinarsi mestamente per il terreno di gioco. Poco dopo Lopez riuscì a superare in velocità Daucik e a mettere in mezzo all’area un pallone sul quale Leonidas appariva in ritardo, con sicurezza Burger s’avvicinò per controllare, ma il centravanti s’allungò come fosse di gomma e calciò in scivolata anticipando il difensore. Planicka rimase di sasso, si lanciò, ma la sorpresa per quel movimento inaspettato lo mantenne in lieve ritardo. La rete si gonfiò e i brasiliani festeggiarono il loro fenomeno, pure ammiccando un pochetto agli avversari. Ma i cecoslovacchi non erano lì per fare le comparse, né tantomeno per farsi prendere a botte. A Machado, che aveva provocato l’infortunio di Nejedly, non venne fatto mancare nulla. Curiosamente la palla girava sempre dalle parti del difensore brasiliano e altrettanto curiosamente c’era sempre qualche danubiano che gli finiva addosso e qualche ginocchio che puntava al bersaglio grosso. Verso la fine del primo tempo, Machado vinse un contrasto con Seneki e s’impadronì del pallone, neppure un istante per rendersi conto di averlo effettivamente tra i piedi che già Jan Riha, che era stato risucchiato dalla pressione ceca nella metaccampo brasiliana, gli si scagliò contro in spaccata, molto più interessato a qualsiasi parte del corpo del brasiliano che alla palla. Caddero entrambi e già da terra iniziarono a picchiarsi. Si rialzarono suonandosele e ,una volta eretti, si afferrarono per le maglie con una mano e con l’altra presero a elencare una serie notevole di colpi codificati dall’”arte nobile”. Ogni tanto le nocche andavano precisamente a segno e si percepivano gli schiocchi dei pugni che colpivano il volto dell’uno o dell’altro. Si buttarono nella mischia altri giocatori, ma Machado e Riha continuarono imperterriti a completare il match, senza badare agli estranei. Dopo un po’ gli intervenuti e l’arbitro si scansarono attenendosi al vecchio detto portuale che “in una rissa si va per picchiare oppure è meglio starne fuori” e si misero a osservare l’esito dell’incontro parteggiando per l’uno o per l’altro. Quando Riha e Machado, stanchi del pugilato, terminarono vicendevolmente aggrappati, vennero accompagnati fuori dall’arbitro ancora afferrati. La polizia e i massaggiatori provvidero a staccarli e a scortarli negli spogliatoi. La partita riprese, ma l’esempio dei due si diffuse rapidamente sul terreno di gioco e ovunque ci fosse il pallone si percepiva il suono secco di una ferma pedata sugli stinchi. Hertzke fischiò la fine del primo tempo con un po’ d’anticipo perché, magari, l’intervallo e i generi di conforto avrebbero un poco tranquillizzato gli animi. Almeno così sperava il direttore di gara, ma, alla fine della pausa, entrambe le squadre si precipitarono fuori dagli spogliatoi come fanno i tori quando si toglie loro davanti l’ostacolo di legno che sbarra il passaggio all’arena. Due minuti e Kostalek rimase lungamente a terra per una ginocchiata al fegato rimediata in un contrasto aereo davanti a Planicka. Un’altra decina di minuti e Peracho incocciò il gomito d’un difensore. Gli si aprì la fronte e la larga ferita necessitò d’una decina di minuti di medicazione e una fasciatura così ampia che tutti si chiedevano come accidenti facesse a vedere le azioni di gioco. Poi Seneki ricevette una palla da Kreutz e lasciò sul posto Alphonsinho, entrò in area e, quando stava per tirare, Domigos lo caricò. Hertzke non ebbe dubbi. Indicò il dischetto, mentre spintoni e insulti riempivano l’aria sopra il prato di Bordeaux. I cecoslovacchi si guardarono l’un l’altro per decidere chi dovesse tirare e poi sentirono il “Tiro io” provenire da chi proprio non l’avrebbe dovuto fare, ma visto chi l’aveva detto nessuno si permise di controbattere. Olda Nejedly prese il pallone e, trascinandosi, lo mise sul dischetto. Tutti i cechi rimasero in religioso silenzio: Planicka e Nejedly erano i due monumenti del calcio nazionale. Se non era la parola di Dio, poco ci mancava. Tutti rimasero a guardare quella scena incredibile: Nejedly con le mani sui fianchi che respirava profondamente, davanti a Walter. Nejedly non si trascinò. Corse verso il pallone come se il suo piede destro non fosse affatto fratturato, colpì di sinistro e non lasciò scampo al portiere. Poi cadde e lì rimase finchè non arrivò la barella a riportarlo negli spogliatoi. Alla ripresa del gioco pareva che una tempesta si fosse abbattuta sul campo portandosi via degli uomini. Erano nove contro nove, ma Kostalek e Peracho erano dei fantasmi che s’aggiravano per il campo. Ma il fortunale non si placò. Poco dopo fu il turno dell’altro grande condottiero cecoslovacco. Lopez alzò un traversone, troppo alto per tutti, tranne che per Planicka. Leonidas saltò lo stesso per ostacolarlo e lo colpì quel tanto che bastò per rovinargli la coordinazione aerea. Planicka s’inclinò come un aereo colpito e cadde rovinosamente al suolo. Il dolore fortissimo al braccio lo avvertì immediatamente che la partita e il mondiale erano finiti lì: era una frattura e non poteva continuare. Venne subito accompagnato all’ospedale e Horak lasciò la fascia destra del campo per indossare la maglia di portiere. L’arbitro comprese che, a quel punto, sarebbe stata necessaria una rivoltella per sedare gli animi. Non trascorsero neppure due minuti che Leonidas dovette ricorrere alle lunghe cure del massaggiatore per un calcione infertogli nelle parti più intime. Rimase disteso ad ansimare per un bel po’ prima di rientrare in campo un po’ disorientato e in debito d’ossigeno. I cecoslovacchi tennero i brasiliani distanti dalla porta a forza di sganassoni per tutti i tempi regolamentari e per i due supplementari. Quando Hertzke fischiò la fine dell’incontro, in campo c’erano solo sopravvissuti. Qualche spettatore sussurrò con attenzione: “Sembra di essere a Verdun dopo un attacco dei tedeschi..”. Ma non era finita. Nel calcio dell’Avanti Cristo non c’erano escamotage. Due giorni dopo venne disputata la ripetizione dell’incontro, per stabilire chi avesse il diritto di continuare il cammino nel Mondiale. Fu un’altra partita leggendaria perduta tra pieghe della storia. I brasiliani avevano riserve di gran valore, mentre i cechi avevano racimolato la squadra pregando il dottore e San Cirillo, ma d’arrendersi alla sorte non volevano sentir parlare. Vinse il Brasile 2 a 1. Segnò ancora una volta Leonidas, che pareggiò il gol di Kopecky, e poi, dopo che Capdeville non aveva convalidato un gol di Seneki, che aveva tirato nel bel mezzo di una mischia e Walter aveva parato un bel po’ dentro la linea di porta, fu Roberto, due minuti dopo, a chiudere definitivamente la partita. I brasiliani non gioirono particolarmente, non ne avevano motivo. Quelli che avevano finito la partita erano a tutti gli effetti dei reduci e, a Marsiglia, c’erano gli italiani ad attenderli. Leonidas era sfinito e azzoppato dalle botte ricevute dai difensori cecoslovacchi, che, d’altro canto, non s’abbatterono più di tanto. Avevano svolto con coscienza un compito arduo. Il calcio Avanti Cristo era un lavoro duro, ma qualcuno doveva pur farlo”.

L’oratore, o come ciascuno degli astanti avrebbe potuto chiamalo, terminò e rimase a fissare un punto imprecisato della sala. Forse anche più in là del muro che delimitava l’edificio. Ci fu un attimo di silenzio esterrefatto. Poi tutti ricaddero sulle seggioline di legno del cinema parrocchiale e cominciarono ad applaudire. Forte. Davvero forte. Più di quanto ci si potesse aspettare da solo una trentina di persone affastellate là, in un tranquillo martedì sera di provincia.

giovedì 1 novembre 2012

CARI INSEGUITORI

N.b. oggi 6 novembre, la presentazione d'Imerio si svolgerà alla Libreria Massaro e non Costeniero. Abbiate pazienza, ma vi accorgerete che stecche si tirano a 50 anni.

Cari inseguitori di Imerio lanciato in fuga sul Gavia, sul Muro di Sormano o su verso Superbagneres, ecco come riacchiapparlo, se volete, prima che s'involi nuovamente.

IMERIO: LE TOUR
1. 6/11/2012 ore 20.45, Libreria Massaro, Castelfranco Veneto. "Lo spettacolo d'Imerio", con Claudio Cecchetto, fisarmonica.

2. 11/11/2012 ore 18.30, Sala della Sede degli Alpini di Cavasagra, il luogo del romanzo. "Lo spettacolo d'Imerio", con Claudio Cecchetto, fisarmonica.

3. 13/11/2012 ore 18.30, Feltrinelli Mestre, Piazza Barche. "Imerio" con Edoardo Pittalis e Claudio Cecchetto, fisarmonica.

4. 17/11/2012 ore 20.00, Milano, Castello Sforzesco, MILANO BOOK FESTIVAL. "Imerio Unplugged" con Max Prandi, chitarra, percussioni, armonica, voce.

5. 23/11/2012 ore 20.45, Bassano del Grappa, Sala Superiore Ufficio Turismo - Libreria Bassanese. "Il Veneto a Pedali" aka "Lo Spettacolo d'Imerio" con Claudio Cecchetto, fisarmonica.

Per il mese di novembre è tutto, arrivederci all'arrivo.