IL RACCONTO D’UNA BATTAGLIA
Gli organizzatori erano persino
contenti. Un parere neutro avrebbe testimoniato di non tanta gente in platea,
ma, davvero per gli organizzatori non erano per nulla pochi. Per una serata
infrasettimanale in una cittadina che pareva uscisse di casa solo per le
funzioni domenicali, quella trentina di persone rappresentava un successo di
cui raccontare in giro. Ma c’era dell’altro. La trentina intervenuta
rappresentava quasi tutte le età e tutti, indistintamente, stavano a bocca aperta
ad ascoltare il tizio che parlava. Come se discorresse su qualcosa di mai
sentito. Eppure l’oratore, o come si vuol nominare quello che chiacchierando
gesticolava sopra la pedana del cinema parrocchiale, aveva avvisato la platea.
“Il calcio di cui vi racconto non è il calcio
d’adesso. E’ un altro calcio. Badate bene non mi permetto di confrontare i
calciatori d’allora con quelli d’adesso. Lo lascio fare a voi. Vi dico solo che
fino al mondiale 1966 le sostituzioni non erano ammesse. Furono possibili due
cambi a partita a partire dall’edizione 1970 della Coppa Rimet, quella giocata
in Messico. Prima, chi cominciava la partita la doveva finire in un modo o
nell’altro. Poi nei mondiali del 1966, Stanley Rous, il presidente della FIFA,
che aveva orchestrato il torneo per fare in modo che, finalmente,
l’Inghilterra vincesse, venne colto dal
rimorso. Oppure, è più verosimile conoscendo lo stomaco robusto di Rous,
qualcuno gli fece notare che vedere Pelè, il più forte giocatore di tutti i
tempi, zoppicare pietosamente durante tutta la partita Portogallo – Brasile
dopo il terribile tackle di Morais all’inizio del primo tempo, era
assolutamente scandaloso. “Passi che l’arbitro Mc Cabe non abbia espluso
Morais, perché quello meritava l’intervento, ma quantomeno concedere
l’opportunità della sostituzione ai brasiliani. Almeno quello”. Allora Rous ne
convenne. A malincuore, ma ne convenne. Disse: “Dal 1970 comincìno le
sostituzioni. Più per la fatica dell’altura di Messico che per altro..”. E il
calcio cambiò. Come l’Avanti Cristo e il Dopo Cristo. Ci furono ancora partite
eroiche, ma relegate alla prima metà degli anni ’70, quando ancora alcuni
giocavano coll’idea del resistere fino all’ultimo respiro. Poi tutti si
conformarono al calcio nuovo. Cosa significa calcio eroico? Non ve lo sto a
specificare riga per riga. Vi racconto solo alcune storie di partite. Ancora
una volta siete voi che dovete farvi un’idea di cosa fosse quel calcio e cos’è
quello d’adesso. Se, casomai, siano lo stesso sport”.
E cominciò a raccontare di
giocatori col capo bendato, di gente che rifiutò di disputare la prima finale
del Campionato del Mondo in Uruguay per paura di uno che chiamavano “L’Uomo che
Cammina” e di altre storie ancora che parevano piovute dai tempi di Enrico Toti
e Gregorio Finimondi. Poi l’oratore, o come accidenti si vuol chiamare, disse
che sir Stanley Matthews, l’ala destra inglese che giocò fino a 50 anni,
sostenne che la partita più dura che egli avesse mai giocato fu Inghilterra –
Italia a Highbury nel novembre del 1934: una partita che passò alla storia come
“la Battaglia di Highbury”. “Ma” e poi sostenne un attimo di silenzio che
pareva vibrasse nell’aria sopra le teste degli spettatori, “ci sono state un
sacco di partite che hanno dato vita a vere e proprie battaglie campali. Io,
dal canto mio, ho rovistato qui e là, tra vecchi giornali e discorsi che i
pensionati fanno nei bar, e, ad oggi, questa è la partita più dura di cui abbia
mai sentito parlare”.
“Nel 1938 la squadra che tutti
s’attendevano e desideravano diventasse campione del mondo era una squadra che in
Europa nessuno aveva mai visto. Forse per questo l’agognavano così tanto
campione. Perché era forte attraverso le voci che, chissà in che modo,
provenivano d’aldilà dell’Oceano. Era il vento che superava il mare che
sospirava i nomi di Leonidas Da Silva, di Domingos da Guia, di Tim, di Zezè
Procopio. I calciatori brasiliani venivano sognati. Tim faceva sparire la palla
davanti agli occhi degli avversari esterrefatti, Leonidas rimbalzava da una
parte all’altra del campo ad una velocità prodigiosa e talvolta s’esibiva in un
funambolismo che in Sudamerica tutti chiamavano la “cilena”, ma di cui i
brasiliani avevano cominciato a parlare come della “bicicletta” pur di non dar
meriti alle “moscas” cilene. Si
raccontava che Leonidas facesse come un salto mortale all’indietro riuscendo a
calciare la palla con la testa sotto e le gambe per aria. Domingos, invece, era
un difensore spietato, ma una volta svelta la palla all’avversario non si
produceva nella pedata caratteristica del comune centromediano: un po’ precisa
e un po’ in balìa della fortuna. No. Usciva dall’area con la palla al piede e
la testa alta. Osservava le mosse dei compagni e poi si produceva nel lancio
millimetrico che meglio li assecondava. Il Brasile era un prodigio portato dal
vento e il vento era davvero molto amato dai francesi. Avevano esordito a Strasburgo ed erano riusciti a piegare dopo
i tempi supplementari un’ inaspettatamente valorosa Polonia. A dir la verità,
finchè il campo era rimasto praticabile i brasiliani avevano surclassato i
polacchi, ma poi un’acquazzone aveva inselvatichito il prato e i polacchi, più
robusti, avevano preso il sopravvento. Era finita 6 a 5 con quattro reti
marcate, nonostante il fango, dal fenomenale Leonidas. Ma, adesso, il tempo a
Bordeaux era bello e contro la Cecoslovacchia i brasiliani avrebbero potuto
esprimersi al meglio. Solo che i cecoslovacchi erano i vice-campioni del mondo.
A Roma, quattro anni prima, avevano perso la finale contro l’Italia ai
supplementari e per quanto i brasiliani fossero spinti dall’entusiasmo, la
Cecoslovacchia era pur sempre una delle grandi potenze del calcio europeo:
Planicka era sempre uno dei migliori portieri al mondo, Nejedly che era stato
capocannoniere a Roma non era niente affatto schizzinoso quando si trattava
dell’odore del gol e Puc, l’ala sinistra che aveva battuto Combi durante la
finale, era sempre veloce, ma più esperto. Tutti avrebbero voluto trionfatore
il Brasile, ma tra Bordeaux e la
semifinale di Marsiglia c’erano di mezzo
i cechi. I polacchi, nella partita precedente, avevano concesso molto spazio
agli attaccanti brasiliani che, per questa ragione, avevano davvero sollazzato
il pubblico, ma già dall’inizio i cecoslovacchi avevano fatto intendere che il
copione questa volta sarebbe stato diverso. I difensori non concedevano un metro
ai funamboli sudamericani e questi, intrappolati tra calcetti e strattoni
leggeri, s’innervosivano sempre più mano a mano che il tempo trascorreva.
Dall’altra parte del campo Nejedly, nei primi contrasti, era riuscito sempre ad aver ragione di Zeze’
Procopio e imponeva l’intervento di
qualche altro difensore in aiuto. Già dopo un quarto d’ora s’assistette alla
prima scazzottatura tra Peracho e Boucek, ma l’arbitro Hertzke non prese alcun
provvedimento perché si formò un cappannello di calciatori urlanti che gli
impedirono di distinguere chiaramente chi fossero i proto-pugili e sanzionarli alla bisogna. Fu più facile
dieci minuti dopo. Nejedly lasciò sul posto ancora Zezè Procopio e Machado
arrivò di corsa, diritto sul piede destro del centravanti che scrocchiò sotto i
tacchetti del brasiliano. Nejedly rimase a terra a lungo col piede che il
massaggiatore considerava, scuotendo la testa, piuttosto fratturato, mentre lì
a fianco si formarono dei tafferugli, con Zezè Procopio particolarmente
combattivo e sbraitante. Una volta che gli assembramenti si sciolsero l’arbitro
ungherese lo afferrò per un braccio con un’aria minacciosa e gli indicò gli
spogliatoi. Rimanere in dieci non era affatto una bella cosa, ma non era così
tragica. Non erano affatto in inferiorità numerica perché Nejedly, pur
rimanendo in campo, col piede in quelle condizioni si limitava a trascinarsi
mestamente per il terreno di gioco. Poco dopo Lopez riuscì a superare in velocità
Daucik e a mettere in mezzo all’area un pallone sul quale Leonidas appariva in
ritardo, con sicurezza Burger s’avvicinò per controllare, ma il centravanti
s’allungò come fosse di gomma e calciò in scivolata anticipando il difensore.
Planicka rimase di sasso, si lanciò, ma la sorpresa per quel movimento
inaspettato lo mantenne in lieve ritardo. La rete si gonfiò e i brasiliani
festeggiarono il loro fenomeno, pure ammiccando un pochetto agli avversari. Ma
i cecoslovacchi non erano lì per fare le comparse, né tantomeno per farsi
prendere a botte. A Machado, che aveva provocato l’infortunio di Nejedly, non
venne fatto mancare nulla. Curiosamente la palla girava sempre dalle parti del
difensore brasiliano e altrettanto curiosamente c’era sempre qualche danubiano
che gli finiva addosso e qualche ginocchio che puntava al bersaglio grosso.
Verso la fine del primo tempo, Machado vinse un contrasto con Seneki e
s’impadronì del pallone, neppure un istante per rendersi conto di averlo
effettivamente tra i piedi che già Jan Riha, che era stato risucchiato dalla
pressione ceca nella metaccampo brasiliana, gli si scagliò contro in spaccata,
molto più interessato a qualsiasi parte del corpo del brasiliano che alla
palla. Caddero entrambi e già da terra iniziarono a picchiarsi. Si rialzarono
suonandosele e ,una volta eretti, si afferrarono per le maglie con una mano e
con l’altra presero a elencare una serie notevole di colpi codificati dall’”arte
nobile”. Ogni tanto le nocche andavano precisamente a segno e si percepivano
gli schiocchi dei pugni che colpivano il volto dell’uno o dell’altro. Si
buttarono nella mischia altri giocatori, ma Machado e Riha continuarono
imperterriti a completare il match, senza badare agli estranei. Dopo un po’ gli
intervenuti e l’arbitro si scansarono attenendosi al vecchio detto portuale che
“in una rissa si va per picchiare oppure è meglio starne fuori” e si misero a
osservare l’esito dell’incontro parteggiando per l’uno o per l’altro. Quando
Riha e Machado, stanchi del pugilato, terminarono vicendevolmente aggrappati,
vennero accompagnati fuori dall’arbitro ancora afferrati. La polizia e i
massaggiatori provvidero a staccarli e a scortarli negli spogliatoi. La partita
riprese, ma l’esempio dei due si diffuse rapidamente sul terreno di gioco e
ovunque ci fosse il pallone si percepiva il suono secco di una ferma pedata
sugli stinchi. Hertzke fischiò la fine del primo tempo con un po’ d’anticipo
perché, magari, l’intervallo e i generi di conforto avrebbero un poco
tranquillizzato gli animi. Almeno così sperava il direttore di gara, ma, alla
fine della pausa, entrambe le squadre si precipitarono fuori dagli spogliatoi
come fanno i tori quando si toglie loro davanti l’ostacolo di legno che sbarra
il passaggio all’arena. Due minuti e Kostalek rimase lungamente a terra per una
ginocchiata al fegato rimediata in un contrasto aereo davanti a Planicka. Un’altra
decina di minuti e Peracho incocciò il gomito d’un difensore. Gli si aprì la
fronte e la larga ferita necessitò d’una decina di minuti di medicazione e una
fasciatura così ampia che tutti si chiedevano come accidenti facesse a vedere
le azioni di gioco. Poi Seneki ricevette una palla da Kreutz e lasciò sul posto
Alphonsinho, entrò in area e, quando stava per tirare, Domigos lo caricò. Hertzke
non ebbe dubbi. Indicò il dischetto, mentre spintoni e insulti riempivano
l’aria sopra il prato di Bordeaux. I cecoslovacchi si guardarono l’un l’altro
per decidere chi dovesse tirare e poi sentirono il “Tiro io” provenire da chi
proprio non l’avrebbe dovuto fare, ma visto chi l’aveva detto nessuno si
permise di controbattere. Olda Nejedly prese il pallone e, trascinandosi, lo
mise sul dischetto. Tutti i cechi rimasero in religioso silenzio: Planicka e
Nejedly erano i due monumenti del calcio nazionale. Se non era la parola di
Dio, poco ci mancava. Tutti rimasero a guardare quella scena incredibile:
Nejedly con le mani sui fianchi che respirava profondamente, davanti a Walter.
Nejedly non si trascinò. Corse verso il pallone come se il suo piede destro non
fosse affatto fratturato, colpì di sinistro e non lasciò scampo al portiere.
Poi cadde e lì rimase finchè non arrivò la barella a riportarlo negli
spogliatoi. Alla ripresa del gioco pareva che una tempesta si fosse abbattuta
sul campo portandosi via degli uomini. Erano nove contro nove, ma Kostalek e
Peracho erano dei fantasmi che s’aggiravano per il campo. Ma il fortunale non
si placò. Poco dopo fu il turno dell’altro grande condottiero cecoslovacco.
Lopez alzò un traversone, troppo alto per tutti, tranne che per Planicka.
Leonidas saltò lo stesso per ostacolarlo e lo colpì quel tanto che bastò per
rovinargli la coordinazione aerea. Planicka s’inclinò come un aereo colpito e
cadde rovinosamente al suolo. Il dolore fortissimo al braccio lo avvertì
immediatamente che la partita e il mondiale erano finiti lì: era una frattura e
non poteva continuare. Venne subito accompagnato all’ospedale e Horak lasciò la
fascia destra del campo per indossare la maglia di portiere. L’arbitro comprese
che, a quel punto, sarebbe stata necessaria una rivoltella per sedare gli animi.
Non trascorsero neppure due minuti che Leonidas dovette ricorrere alle lunghe
cure del massaggiatore per un calcione infertogli nelle parti più intime.
Rimase disteso ad ansimare per un bel po’ prima di rientrare in campo un po’
disorientato e in debito d’ossigeno. I cecoslovacchi tennero i brasiliani
distanti dalla porta a forza di sganassoni per tutti i tempi regolamentari e
per i due supplementari. Quando Hertzke fischiò la fine dell’incontro, in campo
c’erano solo sopravvissuti. Qualche spettatore sussurrò con attenzione: “Sembra
di essere a Verdun dopo un attacco dei tedeschi..”. Ma non era finita. Nel
calcio dell’Avanti Cristo non c’erano escamotage. Due giorni dopo venne
disputata la ripetizione dell’incontro, per stabilire chi avesse il diritto di
continuare il cammino nel Mondiale. Fu un’altra partita leggendaria perduta tra
pieghe della storia. I brasiliani avevano riserve di gran valore, mentre i
cechi avevano racimolato la squadra pregando il dottore e San Cirillo, ma
d’arrendersi alla sorte non volevano sentir parlare. Vinse il Brasile 2 a 1.
Segnò ancora una volta Leonidas, che pareggiò il gol di Kopecky, e poi, dopo
che Capdeville non aveva convalidato un gol di Seneki, che aveva tirato nel bel
mezzo di una mischia e Walter aveva parato un bel po’ dentro la linea di porta,
fu Roberto, due minuti dopo, a chiudere definitivamente la partita. I
brasiliani non gioirono particolarmente, non ne avevano motivo. Quelli che
avevano finito la partita erano a tutti gli effetti dei reduci e, a Marsiglia,
c’erano gli italiani ad attenderli. Leonidas era sfinito e azzoppato dalle
botte ricevute dai difensori cecoslovacchi, che, d’altro canto, non
s’abbatterono più di tanto. Avevano svolto con coscienza un compito arduo. Il
calcio Avanti Cristo era un lavoro duro, ma qualcuno doveva pur farlo”.
L’oratore, o come ciascuno degli
astanti avrebbe potuto chiamalo, terminò e rimase a fissare un punto
imprecisato della sala. Forse anche più in là del muro che delimitava l’edificio.
Ci fu un attimo di silenzio esterrefatto. Poi tutti ricaddero sulle seggioline
di legno del cinema parrocchiale e cominciarono ad applaudire. Forte. Davvero
forte. Più di quanto ci si potesse aspettare da solo una trentina di persone
affastellate là, in un tranquillo martedì sera di provincia.