domenica 30 gennaio 2011

LA SQUOLA , MARK TWAIN E IL DECLINO DELLA CULTURA DI SINISTRA (ULTERIORE PARTE)

Non avevo intenzione di parlare della scuola. No. No. Mi stava sul gozzo l'argomento, ma non ne volevo parlare perchè un po' troppo delicato, ma un blog dovrebbe servire a questo. Non dovrebbe essere un posto in cui conta più la forma che la sostanza: in cui il fatto di non usare le buone maniere, da salottino per bene, squalifica il rango di una persona. Nella mia testa è proprio l'opposto. Perciò procedo. Il tema della scuola è esploso prepotentemente con la riforma Gelmini, ma non solo, perchè la scuola anche senza l'intervento di Maria Stella aveva incocciato l'iceberg da un po' e la nave aveva la prua già mezza sotto. Ciò che mi ha colpito un po' di mesi fa è stato un dibattito su Radio Tre, in "Tutta la Città ne Parla" in cui gli astanti dibattevano sull'università e sugli imminenti test d'ammissione al numero chiuso di alcune facoltà. Il momento topico è stato quando il conduttore ha chiesto con le maniere più buone possibili se questi test d'ammissioni fossero davvero attendibili. Il senso della domanda lasciava trasparire un chiaro: "ma siamo sicuri che non ci siano dei trucchi nei test d'esame e che passino solo quelli che devono passare, piuttosto che quelli che meritano di passare?". C'erano più interlocutori durante la trasmissione, docenti interpellati in diverse sedi universitarie, appartenenti, immagino, a diverse simpatie politiche, ma ciascuno di loro s'è affrettato a garantire la correttezza delle procedure e l'assoluta attendibilità dei test. Persino qualcuno ha incoraggiato i ragazzi che stavano affrontando le prove affinchè non avessero paura, perchè i frutti dello studio sarebbero stati senza dubbio ripagati. Allora, mentre guidavo, m'è parso che si materializzasse sul sedile di fianco la figura di Samuel Langhorne Clemens, in arte Mark Twain, coi suoi capelli folti e il baffo spiovente che mi riraccontava la faccenda dei mormoni, quella dentro "In Cerca di Guai". In parole povere l'esistenza del Libro di Mormon, racconto scritto per mano dell'Angelo Mormon, su tavole tratte dalle Tavole di Nefi, la Bibbia Mormone, per dirla alla tonda, viene testimoniata da tre tizi che giurano d'averlo visto: Oliver Cowdery, David Whitmer e Martin Harris. La veridicità della Bibbia dei Mormoni è affermata dalla provata onestà dei tre testimoni. Come quella dei tre docenti a proposito della regolarità delle prove d'esame. A entrambi risponde il mio Mark Twain di fianco, con voce gorgogliante come quella di un pilota di battelli a pale sul Mississippi: "C'è gente che prima di credere ad alcunchè ha bisogno di vedersi esibire una quantità di prove; ma io, se qualcuno mi dice di aver "veduto le tavole", non solo, ma che lì c'era un angelo che lo ha visto mentre le vedeva e magari s'è fatto dare la ricevuta, mi considero pressochè convinto anche se non ho mai sentito nominare "il testimone" e non so nemmeno il nome dell'angelo, nè la sua nazionalità". Ecco questo potrei rispondere ai tre docenti di "Tutta la città ne parla". E poi magari aggiungerci una storiella che spiega, nel mio piccolo, il famosissimo concetto di "meritocrazia" che tutti sventolano come un vessillo immacolato. Mi sono laureato in Economia e Commercio a Ca' Foscari a Venezia tanti anni fa.  E' stata dura, ma ce l'ho fatta. Ricordo le selezioni naturali dei primi anni, che le decimazioni erano degli scherzetti. Ricordo corsi alle otto di mattina, con 300 studenti, in cui lo studente pendolare doveva servirsi d'un treno in partenza alle sei e cinquanta del mattino per poi correre e ritrovarsi l'aula già tutta piena e accomodarsi sulle scale a prendere appunti. I primi anni erano stati bestiali, ma io non potevo ritirarmi. Dovevo farcela. Gli insegnamenti del terzo anno vedevano un corpo studentesco ridotto di più del 50% e non occorreva più correre per accappararsi il posto. Ma lì sulla strada c'era uno scoglio bello grosso che tutti dovevano affrontare: volenti o nolenti. "Econometrica", che era come Scilla e Cariddi per i navigatori antichi e il cui nome veniva tramandato di coscritti in coscritti. Intendiamoci, non recrimino sulla difficoltà della materia in questione. Se qualcosa è difficile bisogna superarlo se è necessario per ottenere il proprio risultato, non c'è da bighellonare sul tema. Ciò su cui c'era da discutere era l'atteggiamento dell'insegnante che si ritrovava ad avere di fronte dei quasi-laureati, a molti mancava solo quell'esame per discutere la tesi, che peraltro era pronta da tempo, ma ciò non gli impediva di dimostrare a tutti il proprio disprezzo. La propria superiorità di mente brillante. Gli piaceva molto vessare i suoi studenti. Irriderli sprezzante, fin quasi all'insulto intellettuale, materializzato da sguardi che dicevano: "Ma come hai fatto ad arrivare fin qua? Se l'università fosse seria ti avrebbero tagliato le zampette appena sceso dal treno". Con difficoltà superai quell'esame e per un po' mi ricordai di quell'anima prava, ma la vita poi, lo sappiamo tutti, ti fa guardare e passare. Però tutto m'è tornato in mente proprio nei giorni del dibattito sui test d'ammissione alle università. Curiosamente m'è capitato di venire a sapere chi sia ora il Rettore di Ca' Foscari. Sono rimasto attonito quando ho scoperto che quell'insegnante, credo uno dei peggiori dal punto di vista umano (che è enormemente più grave dell'essere inadatto all'insegnamento) che abbia mai incontrato, è divenuto quasi plebiscitariamente Rettore Magnifico dell'Ateneo Veneziano. Una nomina al limite del dileggio, che però spiega bene come sia considerato il corpo studentesco, in realtà l'organismo più importante, nell'ambiente accademico e come venga inteso il termine "meritocrazia". Vi chiederete cosa c'entra la sinistra in tutto questo. C'entra, c'entra e c'entra dall'inizio. Da Radiotre. Io ascolto Radiotre e rifuggo come la peste Radio Capital: la Radio del Gruppo Repubblica. Se quella è il simbolo della musica di sinistra allora io sono Marguerite Yourcenar. Il revival rock più becero, da FM americana ascoltata da chi una volta era scapestrato e ora è un cittadino modello, ma che ascoltando "Born To Be Wild" gli si inumidiscono gli occhi. Per l'amordiddio beatissimo e circonciso. Radiotre è il futuro. Radiotre. Anche se qualcuno dice che Fahreneit dacchè se ne è andato Marino (Sinibaldi) non è più lo stesso.

mercoledì 26 gennaio 2011

ECO E IL DECLINO DELLA CULTURA DI SINISTRA (SECONDA PARTE)

In separata sede qualcuno m'ha confidato di essersi sempre vergognato di ammettere di non essere riuscito ad arrivare alla quarta pagina del "Pendolo di Foucault". Credo che molti non abbiano il coraggio di ammetterlo, perchè è dura dire che Eco è un pipparolo. Non è culturalmente di sinistra dirlo. Ma afferriamo finalmente il coraggio a due mani e diciamolo: "Sono di sinistra, ma Eco è un pipparolo". E riportiamo pure frasi di amici di Torino collocati dalla mia stessa parte politica. "Cazzo, io sono di sinistra, ma meglio Cota della Bresso. Miiinchia con quell'andazzo di aristocratici di sinistra, altezzosi frequentatori di salotti buoni, altrochè vicini agli operai di Mirafiori, stà gente di sinistra ha proprio stufato. Meglio Cota..". Ebbene, ammettiamolo, come tutti quelli che hanno visto Eco al Festival di Mantova un po' di anni fa: Eco è tronfio di cultura. Di far sapere che lui sa. Di "vertigini della lista", ma sicuramente non della spesa, perchè è la governante (magari filippina, che così s'aiuta qualcuno del terzo mondo, à la Grinzane-Cavour) che va al supermercato. Mi fa sorridere che sia trapelata la notizia che sul "Il Cimitero di Praga" sia occhieggiato il termine "plagio", in riferimento al libri "La Tragica Morte di Ippolito Nievo. Il Naufragio Doloroso del Piroscafo Ercole" di Cesaremaria Glori e "Da Quarto Al Volturno" di Giuseppe Cesare Abba. E' Il Foglio ad averla riportata. Si dirà che un giornale di scavafango, per dirla alla Ellroy, che lavora per la destra, ma da quanto tempo gira la storiella che il prestigioso semiologo attinge letterariamente dall'ambiente universitario? Da quello schifoso ambiente universitario colmo di professori che beccano uno stipendio accademico e poi si riempiono di consulenze esterne, delegando agli assistenti e ai ricercatori i compiti che dovrebbero spettare loro in prima persona. E che vanno in televisione e in radio a dire che la scuola sta andando a rotoli, ma che stando in televisione o in radio non stanno dove dovrebbero essere: a dare una mano a quelli che stanno per laurearsi. Quando la sinistra denuncerà il terrificante stato della scuola, che era così ben prima dell'avvento della Gelmini. Quando la smetterà di chiedere soldi per la nobile causa della scuola senza chiedersi dove vanno a finire in realtà, perchè chi di noi, nell'esercito di insegnanti pieni di diritti, ricorda anche solo due o tre "maestri" con affetto? Personalmente posso dire che solo un supplente, nel corso dei miei primi 13 anni di scuola, si sia reso conto che c'era del talento, mica tanto, nel mio modo di scrivere. Che magari valeva la pena di darci sotto. Un supplente durato quindici giorni: per il resto una messe di insegnanti che usavano la più importante professione che ci sia come un ripiego, come uno stipendio sicuro, come l'ultima spiaggia. Mi sono venuti i brividi quando un ragazzo di 20 anni è venuto da me e, parlando d'una buona conoscenza comune, insegnante, m'ha detto: "Per fortuna c'era lei. Io non volevo più andare a scuola alle elementari, ma per fortuna c'era lei. Le altre erano delle arpie. Ho resistito solo grazie a lei, ma ancora oggi la matematica mi atterrisce per via di quell'altra insegnante elementare che mi spaventava. Se non c'era lei non avrei continuato gli studi e non starei per laurearmi in America. Avrei smesso". Questa era un'eccezione. Ci sono davvero tante eccezioni, ma mai, come in questo caso, l'eccezione non fa la regola.

domenica 16 gennaio 2011

LA FINE DELLA CULTURA DI SINISTRA (PRIMA PARTE)

Ho sempre creduto che la cultura fosse di sinistra. L'establishment stava a destra e non aveva bisogno di cambiare, quindi tutto ciò che proponeva un'alternativa era buono ai miei occhi. La destra non se ne faceva nulla della cultura (ancora oggi c'è chi dice che con la cultura non si mangia) che era un prodotto residuale di facile appannaggio di chi avesse voluto raccoglierlo. Perciò la cultura diventò la bandiera di tutta una generazione che sperava in un miglioramento futuro, quando non c'era nulla di meglio della speranza. La generazione di mio padre, muratore e carpentiere, era abarbicata a quell'ideale. I ricchi non avevano questo problema: un certo aplomb di conoscenze era connaturato con le loro origini e non c'era alcunchè da conquistare. Tutto ciò, a posteriori, è riassumibile con la frase iniziale: HO SEMPRE CREDUTO CHE LA CULTURA FOSSE DI SINISTRA. Sono passati un sacco d'anni e ora sono convinto d'essermi sbagliato. Sono sempre più convinto d'aver preso un colossale abbaglio. L'ho intuito un po' d'anni fa leggendo la pagina culturale del MANIFESTO. Mi sono ritrovato nel bel mezzo d'un articolo che parlava di Mark Twain, uno degli scrittori che amo di più, e ho improvvisamente realizzato che non capivo un acca di quello che c'era scritto. Ma, perdio, mica ero l'ultimo degli imbecilli: avevo fatto i miei studi e conservavo un ottimo rapporto con morfologia e sintassi, eppure non capivo una beatissima mazza di quello che diceva l'articolo. Altissime metafore che sfioravano l'Empireo mi facevano sentire un rudere culturale. Tutto ciò è continuato. L'anno scorso la recensione dell'"Ombra del Cannibale" parlava di significati PLUTARCHEI dentro al mio libro. Francamente io Plutarco so solo che è esistito, ma per il resto non ne so nulla, eppure "L'Ombra del Cannibale" con dentro tutti i suoi significati plutarchei ero sicuro d'averlo scritto io. Il termine PLUTARCHEO dentro a un QUOTIDIANO COMUNISTA che razza di obiettivo potrebbe avere? L'acculturamento delle classi meno abbienti oppure la codificazione di un linguaggio radical chic che stamo a capì solo noi fighi? Propesi e propendo decisamente per la seconda ipotesi, clamorosamente corroborata da altri importanti contributi. Non molto tempo ascoltai a Fahreneit, il programma cult di RadioTRE, un intervento di Angelo Guglielmi a proposito del Gruppo 63 infarcito di argomentazioni sull'importanza di quell'esperienza. Va subito spiegato che, secondo me, un libro va scritto perchè qualcuno possa leggerlo, con un linguaggio non troppo algido, ma senza concedere nulla alla faciloneria, perchè non vi siano sbarramenti di sorta a causa della diversa preparazione dei lettori. "Il Mondo Piccolo", "Shantaram", "Cinebrivido", "Colpo di Spugna" sono grandissimi libri che possono essere letti da chiunque, eppure Guglielmi dissertava sulla disintegrazione del testo, sulla dislocazione dei periodi, sul significato del suono della singola parola a discapito della comprensibilità del testo, senza che nessuno lo fermasse e lo mandasse beatamente affanculo spiegandogli che tutte le stronzate che il Gruppo 63 aveva partorite erano consentite dal fatto che ognuno di quegli autori era docente universitario e quindi ammanicato per salario e conoscenze editoriali, tanto da non dover campare sperando di pubblicare e vendere alcunchè, ma, magari, tirando due soldi in più facendo adottare come libri di testo universitari quelle porcheriole. Chiunque abbia letto "Il Pendolo di Foucoult" di Umberto Eco deve aver pensato, se sano di mente, che il semiologo non stesse scrivendo, ma tirandosi una poderosa pippa allo specchio. Una roba tipo: "Mamma mia che bravo che sono a scrivere ste cose in questo modo". Fin dalle prime pagine quell'onanismo letterario esasperato giganteggia, ma nessuno che abbia avuto il coraggio, a sinistra, di dire: "Caro Eco, prenditi tutte quelle mille pagine del Pendolo e mangiatele una a una. E resti qua fin che non hai finito". Anzi lodi sperticate al semiologo, che se si critica si finisce fuori dalla loggia dei stamo a capì solo noi fighi, che la grande svolta della cultura di sinistra è il passaggio dal farsi capire da tutti al farsi capire da pochi. Però, beninteso, quei pochi debbono essere davvero quelli più chic. Gente come Rutelli, per fare un nome, che, magari, chi critica ora aspramente Bondi, ha dimenticato essere stato un po' di tempo fa ministro dei Beni Culturali. La gente che piace alla gente che piace.

martedì 11 gennaio 2011

UN' AVVENTURA IN GIAPPONE

Sono già passati due anni, ma più o meno due anni fa ero in Giappone. A Tokyo. Troppi pochi giorni per poter dire di avere un'opinione sul Sol Levante, ammesso che sia possibile una qualsiasi comprensione, indipendentemente dalla durata del soggiorno, dell'indole di un paese. Però, pur nel brevissimo periodo di tempo, ritengo di avere avuto un'esperienza in qualche modo molto esplicativa della giapponesità. Una delle ragioni della traversata era legata ad alcuni meccanismi che mi si erano infilati nella testa mentre guardavo "Ghost Dog" di Jim Jarmush, con tutti i riferimenti  Hagakureschi, sottolineati poi dai due "Kill Bill", perciò non è stato affatto un caso, pur sembrando a prima vista così, che io abbia avuto l'opportunità di assistere ad una seduta d'arti marziali in un dojo. Il Takase dojo, per la precisione. Arrivare al dojo di Takase è stato singolare: già in strada, cento metri prima, c'erano persone in kimono che, a coppie, portavano colpi e confabulavano sulla qualità della tecnica utilizzata. C'era gente di karate, kung-fu e kendo che, in mezzo alla via, s'allenava prima di entrare dal Maestro Takase. La mia accompagnatrice giapponese mi spiegava che quelli per strada erano professionisti d'arti marziali che lavoravano per il cinema, alcuni di loro avevano per esempio fatto parte del cast dell'"Ultimo Samurai", che si rivolgevano a Takase per migliorare ulteriormente la loro tecnica. Improvvisamente, entrati nel dojo, tutti i movimenti dei karateki terminarono quando sul tatami comparve il maestro. Takase s'accovacciò ai bordi del tatami e gli allievi cominciarono a coppie o a terne ad esibirsi di fronte a lui, rappresentando scene di combattimento. Pareva proprio d'essere dentro a delle sequenze di film d'azione, con colpi portati e parati a velocità impressionante e coup de teatre con le consuete facce piegate da smorfie di dolore tipiche delle pellicole giapponesi. Quelle erano sequenze da film, non c'era dubbio, messe in scena da professionisti affermati. Alla fine del gig i combattenti si portavano al centro del tatami, s'inchinavano di fronte al maestro e attendevano il suo responso. Takase pensava e poi s'alzava e spiegava ciò che doveva essere migliorato e come. Gli atleti s'inchinavano rispettosamente e poi uscivano per riprovare la sequenza in strada, mentre il maestro osservava e analizzava un'altra coppia di figuranti. Poi rientravano e si sottomettevano nuovamente all'analisi. Professionisti affermati che riconoscevano un'autorità tecnica superiore e che, quindi, ammettevano i propri limiti. E' questo che m'è rimasto impresso nella testa del Giappone: la concezione del maestro. Per fare bene una cosa è necessario rivolgersi a chi già la sa fare in modo superlativo, al tempo stesso con e senza timore del giudizio, perchè i limiti stanno nella nostra natura di uomini: oltrepassatone uno, già un altro ci si para di fronte. E' saltata chiaramente agli occhi la differenza col modo di pensare italiano, almeno nei settori che ho maggiormente frequentato. Nella musica si comprende bene come chiunque abbia calcato un palco per un certo numero di volte ponga sempre di più l'accento sull'IO, dimenticando che dal palco si finisce per scendere e sentenziando sul come bisogna fare e che cosa quando ancora si dovrebbe poppare dal seno materno. La frase sempre ripetuta di Silvano Brambilla, redattore della rivista IL BLUES, spiega meglio di qualunque altra questo atteggiamento: "Beh a tutti i concerti di una certa importanza a cui vado non trovo mai nessun musicista italiano che ascolta, solo i soliti due o tre. Magari rimangono quelli che hanno fatto gruppo spalla, ma non si sprecano a stare a sentire gli headliner, perchè hanno già detto tutto loro: erano loro quelli forti". Nella scrittura è lo stesso. Ci deve essere qualcosa che porta a credere che chi si definisce scrittore debba brillare come una stella bella grossa nella notte. C'è chi ha scritto un libro, magari pagandoselo, che ti osserva di sottecchi sussurrando con un certo compiacimento: "Beh sai, io scrivo....". Nessuno ha capito ancora che per la scrittura vale benissimo la definizione di Murakami Haruki: "Scrivere è come spalare la neve". Il primo libro è come il primo giro di pala, il secondo un po' di più, il terzo così via, senza dimenticare che il sole, alla fine, la neve la scioglie.

venerdì 7 gennaio 2011

IL GRILLO PARLANTE, LUCIANO LIGABUE E LITTLE WALTER JACOBS (SECONDA PARTE)

Ma. Si diceva. Ma non ce la fanno neppure i piccoli professionisti e i buoni dilettanti. Per ragioni molto simili. I piccoli professionisti devono campare suonando. Diciamo che con i soldi che mediamente si prendono adesso per gig, un centinaio di concerti all'anno sono il minimo per raggiungere un reddito appena, appena sufficiente. Se si sta sotto quella quota bisogna trovarsi un lavoretto di sostegno oppure campare di scrocco: perciò oltrechè suonare bisogna lavorare per poterlo fare (ciò che potremmo chiamare pubbliche relazioni) e il tempo da dedicare a pensare a possibili nuovi percorsi musicali si riduce quasi a nulla. Lo stesso vale per i dilettanti, quelli buoni: il desiderio di diventare piccoli professionisti li porta a suonare, suonare, suonare: qualsiasi palco va bene perchè magari c'è qualcuno d'importante che ti ascolta e chi ti può aiutare. Ho fatto parte di quest'ultima schiera per molto tempo, qualcosa come 500 concerti e forse più e non ho mai trovato nessuno che dicesse, oltrechè al consueto "bravo, bello, intelligente, modesto....", un più consistente "beh! potrei aiutarti a fare delle robe". Niente di niente, se non dilettanti al mio pari con cui ci si è scambiati per reciproca stima delle date (eventualità proprio per nulla frequente). Ho invece visto amici partire per il professionismo e tornare dopo un anno a dirmi: "Grandi concerti, ma ho fatto 50.000 chilometri e non son riuscito a mettere via una lira per una macchina nuova, che con 200.000 chilometri questa è finita...Meglio che torni a lavorare se voglio cavare un ragno dal buco". Tutto ciò per dire che è praticamente impossibile fermarsi, quantomeno nel blues, la musica che ho praticato per così tanto tempo, a pensare a cose come: "Beh ormai siamo alla milionesima versione di "My Baby", originale o con altro titolo, magari si può suonare qualcosa d'altro...Magari c'è un altro corridoio da esplorare...". No, ma mi fa fatto ridere tempo fa un "Omaggio a Little Walter" organizzato in un locale da qualche parte. Ho immaginato armoniche, armoniche, armoniche andare a destra e a sinistra, con block-tongue o senza block-tongue, con overblow o senza overblow, cercare di omaggiare Little Walter Jacobs. La realtà è che Little Walter Jacobs è stato l'omologo di Jimy Hendrix nell'armonica e la cosa più deprimente che mi sia mai capitata di vedere è una serata piena di chitarristi radunatesi con lo scopo di rendere omaggio a Jimi Hendrix. Come se non si sapesse che, ancora oggi, l'originale è 5000 volte superiore alle reinterpretazioni, a distanza di 40 anni dalla morte. Un uomo veramente caduto sulla terra da Marte. Ma anche ascoltare Little Walter è un'esperienza devastante per chiunque ami il blues: non solo per il band leader, che introduce nei chorus tipici del blues frasi da sassofono di Louis Jordan, ma per l'accompagnamento spaventosamente intelligente dei fratelli Myers e di Fred Below: attenti più alle pause e al silenzio, che al suono. Ascoltare con calma "Confessin The Blues" e "I Hate to See You Go", gli album non le canzoni, dovrebbe far riflettere gli amanti-suonatori. Grandi e piccoli professionisti e buoni dilettanti. Come tutti gli album dell'American di Johnny Cash o "Tell Tales Signs" di Bob Dylan. Il suono cresce pulito, semplice  e potente. L'unica cosa è fermarsi ed ascoltarlo. Dopo nulla potrà essere più uguale. FERMARSI e ascoltare. La strada dopo potrà essere solo diversa.

lunedì 3 gennaio 2011

IL GRILLO PARLANTE, LUCIANO LIGABUE E LITTLE WALTER JACOBS (PRIMA PARTE)

Non so se dare ad uno del "Grillo Parlante" sia qualcosa di sgradevole o no. Penso di sì, però, perchè il Grillo Parlante, nonostante avesse ragione, dispensava consigli in modo da sembrare un po' troppo antipatico e petulante. Questo per mettere le mani avanti ancor prima di mettermi a scrivere alcunchè: a titolo di scongiuro. Ebbene credo che il libro che meglio mi rappresenti sia "Bluespadano". Tutti quelli che m'incontrano e che hanno letto tutta l'opera ballestraccesca, iniziano ad argomentare sul grande tema della ballestraccità partendo dal caposaldo "Bluespadano". Anche quello che reputo il mio vate giovanile e che ho inserito in "Bluespadano" sotto le spoglie del "cugino sapiente", il cui parere è per me alla stessa stregua di un aforisma del Hagakure, reputa questo libro il migliore del paniere. E proprio da "Bluespadano" parto per questo post. E' molto probabile che io non avrei mai scritto quel libro se un giorno di primavera, nel tardo pomeriggio, qualcuno non avesse trasmesso a RadioRai "Certe Notti" di Luciano Ligubue. Rimasi impietrito al volante. Ancora oggi credo che un verso come "Certe notti la radio che passa Neil Young sembra avere capito chi sei" debba essere per forza stato partorito dalla mente di qualcuno che ha capito più di qualcosa della vita. Quella canzone e "Un figlio di nome Elvis" chiusero un cerchio (come in "Bluespadano" il treno che passa sul ponte di Casalmaggiore) che era iniziato anni prima con "Anime in Plexiglas": cioè una sorta di incredibilità nel rendermi conto che c'era dell'altra gente che, come me, cercava simbolicamente di americanizzare la Pianura Padana. Oracle King, Paul Boss, Martin & Oscar sono arrivati di conseguenza, semplicemente perchè quelle canzoni mi facevano capire che se c'era un modo di sentire così, quello doveva per forza essere cercato vicino al Grande Fiume. So che a nessuno dei Fantastici Quattro piace essere accostato a Luciano Ligabue, ma tant'è: le cose stanno così e nel segreto di questo blog lo posso ammettere. Perciò ho guardato a Luciano Ligabue sempre con una certa accondiscendenza, in virtù dell'ancestrale patto stipulato con la sua musica che, fin dall'origine, sfiorava il mito: la prima volta che l'ascoltai mi venne richiesto da un ascoltatore notturno di una radio dalla quale trasmettevo, nella fatal combinazione notte, musica, radio, america, eccetera, eccetera. Mio malgrado ho visto la qualità della sua produzione scemare di cd in cd, ma ho sempre coltivato la segreta speranza del colpo d'ala che l'avrebbe riportato sulle corde del mio cuore. Anche ad "Arrivederci Mostro" ho concesso la mia accondiscendenza, ma questa volta ho dovuto arrendermi all'evidenza del più classico "nientetrippapergatti". Niente di niente, se un tentativo di decollo in "Quando mi vieni a prendere", ma troppo poco per un cd (io per professione di fede non scarico da internet) che sfiora i 20 euro. La domanda che sorge spontanea è perchè questi musicisti importanti non si prendano il lusso di un lungo periodo di pausa, di qualche viaggio fuori dall'Italia, anche perchè non corrono il rischio d'essere assediati: fuori dall'Italia non li conosce nessuno, nonostante la stampa specializzata li voglia far passare per famosi nel modo. Lo stesso vale per Zucchero, che ormai non riesce neppure più a plagiare con classe falsaria Al Green. Ma altrove vale anche per altri: chi fermerà Springsteen, per me un' autentica religione, dal devastare con cd bolsi un passato meraviglioso? Perchè qualcuno non ferma Van Morrison e gli spiega che per poter solo immaginare un qualcosa che s'avvicini a "No Guru, No Method, No Teacher", un disco di gran qualità, ma di seconda fila nello scorrere del suo genio, sono necessarie lunghe passeggiate nella brughiera a una grande distanza dal più vicino studio di registrazione? La risposta è probabilmente semplice: sia Liga, che Zucchero, che Springsteen, che Van hanno contratti da rispettare. Almeno io spero sia così. Spero sia il prezzo che bisogna pagare per essere diventati grandi professionisti. Se ciò fosse vero si aprono grandi territori galoppabili per piccoli professionisti e ottimi dilettanti, liberi da capestri di ogni genere. Sì, potrebbe essere così, il tanto vituperato dilettantismo potrebbe essere la nuova frontiera dell'arte. Ma.