martedì 11 gennaio 2011

UN' AVVENTURA IN GIAPPONE

Sono già passati due anni, ma più o meno due anni fa ero in Giappone. A Tokyo. Troppi pochi giorni per poter dire di avere un'opinione sul Sol Levante, ammesso che sia possibile una qualsiasi comprensione, indipendentemente dalla durata del soggiorno, dell'indole di un paese. Però, pur nel brevissimo periodo di tempo, ritengo di avere avuto un'esperienza in qualche modo molto esplicativa della giapponesità. Una delle ragioni della traversata era legata ad alcuni meccanismi che mi si erano infilati nella testa mentre guardavo "Ghost Dog" di Jim Jarmush, con tutti i riferimenti  Hagakureschi, sottolineati poi dai due "Kill Bill", perciò non è stato affatto un caso, pur sembrando a prima vista così, che io abbia avuto l'opportunità di assistere ad una seduta d'arti marziali in un dojo. Il Takase dojo, per la precisione. Arrivare al dojo di Takase è stato singolare: già in strada, cento metri prima, c'erano persone in kimono che, a coppie, portavano colpi e confabulavano sulla qualità della tecnica utilizzata. C'era gente di karate, kung-fu e kendo che, in mezzo alla via, s'allenava prima di entrare dal Maestro Takase. La mia accompagnatrice giapponese mi spiegava che quelli per strada erano professionisti d'arti marziali che lavoravano per il cinema, alcuni di loro avevano per esempio fatto parte del cast dell'"Ultimo Samurai", che si rivolgevano a Takase per migliorare ulteriormente la loro tecnica. Improvvisamente, entrati nel dojo, tutti i movimenti dei karateki terminarono quando sul tatami comparve il maestro. Takase s'accovacciò ai bordi del tatami e gli allievi cominciarono a coppie o a terne ad esibirsi di fronte a lui, rappresentando scene di combattimento. Pareva proprio d'essere dentro a delle sequenze di film d'azione, con colpi portati e parati a velocità impressionante e coup de teatre con le consuete facce piegate da smorfie di dolore tipiche delle pellicole giapponesi. Quelle erano sequenze da film, non c'era dubbio, messe in scena da professionisti affermati. Alla fine del gig i combattenti si portavano al centro del tatami, s'inchinavano di fronte al maestro e attendevano il suo responso. Takase pensava e poi s'alzava e spiegava ciò che doveva essere migliorato e come. Gli atleti s'inchinavano rispettosamente e poi uscivano per riprovare la sequenza in strada, mentre il maestro osservava e analizzava un'altra coppia di figuranti. Poi rientravano e si sottomettevano nuovamente all'analisi. Professionisti affermati che riconoscevano un'autorità tecnica superiore e che, quindi, ammettevano i propri limiti. E' questo che m'è rimasto impresso nella testa del Giappone: la concezione del maestro. Per fare bene una cosa è necessario rivolgersi a chi già la sa fare in modo superlativo, al tempo stesso con e senza timore del giudizio, perchè i limiti stanno nella nostra natura di uomini: oltrepassatone uno, già un altro ci si para di fronte. E' saltata chiaramente agli occhi la differenza col modo di pensare italiano, almeno nei settori che ho maggiormente frequentato. Nella musica si comprende bene come chiunque abbia calcato un palco per un certo numero di volte ponga sempre di più l'accento sull'IO, dimenticando che dal palco si finisce per scendere e sentenziando sul come bisogna fare e che cosa quando ancora si dovrebbe poppare dal seno materno. La frase sempre ripetuta di Silvano Brambilla, redattore della rivista IL BLUES, spiega meglio di qualunque altra questo atteggiamento: "Beh a tutti i concerti di una certa importanza a cui vado non trovo mai nessun musicista italiano che ascolta, solo i soliti due o tre. Magari rimangono quelli che hanno fatto gruppo spalla, ma non si sprecano a stare a sentire gli headliner, perchè hanno già detto tutto loro: erano loro quelli forti". Nella scrittura è lo stesso. Ci deve essere qualcosa che porta a credere che chi si definisce scrittore debba brillare come una stella bella grossa nella notte. C'è chi ha scritto un libro, magari pagandoselo, che ti osserva di sottecchi sussurrando con un certo compiacimento: "Beh sai, io scrivo....". Nessuno ha capito ancora che per la scrittura vale benissimo la definizione di Murakami Haruki: "Scrivere è come spalare la neve". Il primo libro è come il primo giro di pala, il secondo un po' di più, il terzo così via, senza dimenticare che il sole, alla fine, la neve la scioglie.

Nessun commento:

Posta un commento