Ricordo bene la sensazione provata al mio primo Salone del Libro, subito dopo l'uscita della "Storia Balorda". Stavo con Luigi Tempera e ricordo che m'inginocchiai davanti all'ingresso espositori e baciai per terra. "Ma che cazzo fai? Ti sei rincretinito Balle?". E' che Luigi, abitando in Piazza Cattaneo a Torino, non conosceva le pulsioni d'un provincialone come me. Essere al Salone era un traguardo, una roba mai vista. Lo smarrimento e l'affogamento in mezzo a tanti libri mi travolgeva. La cosa strana fu che dopo un'oretta che ci stavo dentro, in mezzo tutto quel casino di gente che parlava e di poveri disgraziati che tenevano i loro incontri nei vari stand delle case editrici, cercando disperatamente di far sentire ciò che avevano da dire, ho sentito la necessità di filarmela alla svelta e di ripararmi in una libreria ospitale: chessò "La Gang del Pensiero" d'Andrea Bertelli che ancora non conoscevo, ma che se avessi conosciuto sarebbe stata senza dubbio d'ausilio, o, per esempio, persino di ritornare alla Libreria Costeniero del mio paesello, che non era com'è adesso, ma che se lo fosse stata sarebbe stata di certo sollevante di fronte a quel bailamme.
Quest'anno sono tornato al Salone e quella pazzesca sensazione di confusione è riapparsa. Intatta. Incontri cogli autori negli stand che, poveri disgraziati, cercavano di farsi sentire nel bordello più totale: tutti probabilmente alle prese con lo stesso stato d'animo ch'avevo io: è un traguardo, sono venuto a Torino, e devo sfruttare al meglio l'occasione.
Purtroppo però, a osservarla da tutte le parti, non c'è nessuna occasione.
Purtroppo però, a osservarla da tutte le parti, non c'è nessuna occasione.
Claudio Cecchetto, il fisarmonicista che suona con me e ch'era a Torino per tenere lo spettacolo al Salone Off, nel suo candore di termotecnico (cioè musicista non professionista, come me, del resto, che per campare faccio il barista) ha proferito il solenne: "Ma questa è come la Fiera delle Macchine Utensili, anche se lo chiamano Salone del Libro". E c'ha colto preciso, preciso come un cecchino a Srebenica. E' proprio così, nonostante il squaqquaraquare della "Stampa" e la diretta di Fahreneit. Il Salone del Libro è solo un immenso negozio di libri che s'allestisce ogni anno al Lingotto. Nè più, nè meno di questo. Chi cerca un luogo un cui si respiri cultura, cioè un modo di pensare e sentire particolare, ha sbagliato indirizzo, nel senso che ciò che trasudano i libri lo si può percepire in ogni libreria di paese, perchè chi ama il libro quella sensazione la può percepire in tutti i luoghi in cui quell'oggetto ci sia, indipendentemente dal fatto che si trovi, appunto, alla "Gang del Pensiero", in cui quell'oggetto è amato, oppure in una libreria in cui il gestore ha tergiversato fino all'ultimo nella scelta se aprire in quel preciso posto un negozio Intimisssimi.
Il Salone del Libro non serve agli autori, nel senso che gli emergenti, o immergenti, si trovano nella spiacevolissima posizione di doversi portare gli spettatori, che chi, come me, ha suonato per molto tempo, è una circostanza che ricorda con terrore, acuita dal disperato sgomitare per farsi sentire in mezzo al contemporaneo soggiornare d'altri incontri più che limitrofi. I grandi autori, quelli che vendono, al contrario, non hanno bisogno del Salone, perchè già, per conto loro, vendono ed è quindi piuttosto vero il contrario: è il Salone del Libro che ha bisogno dell'autore gettonatissimo.
Gli editori (in particolare i piccoli, quelli che svolgono la funzione del vero polmone di ciò che potremmo chiamare, perdonatemi, letteratura), nonostante i comunicati stampa trionfalistici del Salone, hanno venduto pochissimo più degli anni scorsi e i vuoti già percepiti quest'anno aumenteranno negli anni successivi, perchè, dopo un po', valgono i conti della serva: "D'accordo il Salone è una gran vetrina, ma quanto mi costa? Tra affitto dello stand e spese d'alloggio, quanti ostia di libri debbo vendere per andare in pari? Già sono nella merda perchè si vende pochissimo e allora perchè l'anno prossimo dovrei incasinare di più la mia situazione economica con stè spese che temo sia meglio evitare?".
Hanno venduto tantissimo i grandi editori, quelli che stanno spezzando la schiena al mercato del libro medesimo, col loro grande vantaggio dei bilanci consolidati e la possibilità della scontistica pazzesca, rivelando ancora una volta una delle principali malattie italiane, assecondata immancabilmente pure a Torino: "umili con i potenti e boriosi con i modesti" che già "Uccellacci e Uccellini" qualche milione d'anni fa evidenziava.
Magari il Salone è servito ai lettori: hanno finalmente trovato un sacco di libri e una scontistica interessante, ma qualora tenessero conto del biglietto d'ingresso e del costo della trasferta troverebbero una ragione nell'esserci stati se non l'assecondare l'anelito della transumanza verso ciò che i mass media essere la Mecca culturale torinese?
E poi, diciamocelo, tra tutti gli interventi che ho ascoltato radiofonicamente, facendo finta di nulla, per esempio, sulla capziosissima questione di cosa ci facesse una mente eminente come quella di Luca Barbarossa a condurre la diretta dal Salone del Libro per Radio2, non so come mai mi sia capitato d'ascoltare una risposta sensata alla domanda: "Ma perchè in Italia si legge così poco?".
Prescindendo dal fatto che questo è un problema che in Italia s'è sempre evidenziato, ma supponendo di volerlo risolvere, una possibile soluzione deriverebbe da una semplice constatazione: "Ma com'è possibile risolverlo se lo stato stanzia sempre minori fondi alla cultura, senza che nessuno, di destra o di sinistra, prenda una fortissima posizione contro questo stato di cose? All'estero, per esempio, non si manca di sovvenzionare i piccoli editori che sviluppino particolari temi narrativi o saggistici, come mai in Italia no?". Ho sentito migliaia di circonlocuzioni persino ai magnanimi microfoni di Fahreneit, ma nessuno che auspicasse una buona volta un preciso intervento della politica in questo senso. Ma come mai?
La risposta purtroppo è, ahimè, cinquestellare. I capoccia del Salone, per la loro stessa posizione, sono legati a doppio filo con gli apparati politici o di derivazione politica: enti parastatali, università, fondazioni sostenute da ciò che rimane del finanziamento pubblico. Chi cazzo volete che si erga dalla cintola in su a rimproverare aspramente chi consente loro di tenere famiglia e anche una bella famiglia?
Perciò è inevitabile che il Salone non giovi a nessuno, se non alle chiacchiere da bar della cultura e dell'ovvio e se non al Salone stesso, che se ne frega del Salone Off incastonato nei posti più improbabili del tessuno urbano di Augusta Taurinorum, delle corde vocali dei relatori negli stand che si sgolano per farsi sentire, delle case editrici mediopiccole e delle librerie sempre più nella merda. Ciò che è importante è la visibilità del SALONE DEL LIBRO DI TORINO. E' importante che ci siano i Barbarossa, le televisioni, anche quelle che hanno fatto fortuna spezzando le reni alla qualità culturale delle emissioni, tutto ciò perchè è un soggetto economico e che dà pure da lavorare e, come tutti sanno, gli utili e i posti di lavoro (pur temporanei) oggi sono discriminanti importantissime per valutare l'importanza d'una manifestazione. Però, per quanto mi riguarda, il Salone non mi frega più, a meno che non diventi famoso perchè, come tutti sanno: "La grandezza della mia morale è proporzionale al mio successo".
Prescindendo dal fatto che questo è un problema che in Italia s'è sempre evidenziato, ma supponendo di volerlo risolvere, una possibile soluzione deriverebbe da una semplice constatazione: "Ma com'è possibile risolverlo se lo stato stanzia sempre minori fondi alla cultura, senza che nessuno, di destra o di sinistra, prenda una fortissima posizione contro questo stato di cose? All'estero, per esempio, non si manca di sovvenzionare i piccoli editori che sviluppino particolari temi narrativi o saggistici, come mai in Italia no?". Ho sentito migliaia di circonlocuzioni persino ai magnanimi microfoni di Fahreneit, ma nessuno che auspicasse una buona volta un preciso intervento della politica in questo senso. Ma come mai?
La risposta purtroppo è, ahimè, cinquestellare. I capoccia del Salone, per la loro stessa posizione, sono legati a doppio filo con gli apparati politici o di derivazione politica: enti parastatali, università, fondazioni sostenute da ciò che rimane del finanziamento pubblico. Chi cazzo volete che si erga dalla cintola in su a rimproverare aspramente chi consente loro di tenere famiglia e anche una bella famiglia?
Perciò è inevitabile che il Salone non giovi a nessuno, se non alle chiacchiere da bar della cultura e dell'ovvio e se non al Salone stesso, che se ne frega del Salone Off incastonato nei posti più improbabili del tessuno urbano di Augusta Taurinorum, delle corde vocali dei relatori negli stand che si sgolano per farsi sentire, delle case editrici mediopiccole e delle librerie sempre più nella merda. Ciò che è importante è la visibilità del SALONE DEL LIBRO DI TORINO. E' importante che ci siano i Barbarossa, le televisioni, anche quelle che hanno fatto fortuna spezzando le reni alla qualità culturale delle emissioni, tutto ciò perchè è un soggetto economico e che dà pure da lavorare e, come tutti sanno, gli utili e i posti di lavoro (pur temporanei) oggi sono discriminanti importantissime per valutare l'importanza d'una manifestazione. Però, per quanto mi riguarda, il Salone non mi frega più, a meno che non diventi famoso perchè, come tutti sanno: "La grandezza della mia morale è proporzionale al mio successo".
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