Il blues è la malattia, ma anche la cura. Il blues è omeopatico. (Edoardo “Catfish” Fassio)
Erano gli anni ’70, più vicini agli ’80, però. Forse 1978 o 1979 e a me, per qualche motivo che non so proprio spiegare, piaceva il blues. Non so neppure di preciso che tipo di blues mi piacesse. Il blues in generale: il più generale possibile. Il materiale blues di cui disponevo era registrato con un portatile Grundig dalle radio private locali, che erano nate solo tre anni prima e che furono davvero una rivoluzione. L’idea era che tutti potessero trasmettere ciò che pareva loro, bastava avere un trasmettitore e il gioco era fatto. Non avrei sennò potuto registrare “I Can’t Be Satisfied” e “Pain In My Heart” degli Stones, perché non c’era spazio per roba simile nei palinsesti della radio nazionale. Un pomeriggio di quegli anni là, da una stazione beccata per caso che si chiamava Radio Babilonia, tanto per intenderci sul tipo di emittente, qualcuno trasmise l’intero concerto di un duo di blues che ci dava sotto da matti: Cocco & Bisson. Lo speaker ne parlava come di due pionieri della misteriosa musica afro-americana, che di altri in giro per l’Italia ce n’eran pochi e diceva pure che questi due suonavano un sacco in giro per il Veneto più vicino a casa mia, che era davvero importante perché a quell’età mica potevo avere la patente. Fu così che una sera, in un locale all’aperto del mio paese, vidi per la prima volta all’opera Cocco & Bisson. Rimasi a bocca aperta per tutto il concerto, anche perchè quello più alto, che suonava la chitarra e che cantava, raccontava storie di ‘stì posti chiamati Mississippi e Chicago e di tizi che avevano dei nomi strani: Leroy Carr e John Henry che aveva qualcosa a che fare con un treno. Mica avrei mai pensato un giorno di avere qualcosa a che spartire con loro: erano troppo avanti per me e i posti di cui parlavano io neppure li immaginavo. Bisson soprattutto pareva saperla molto lunga e così quando cominciai a scrivere interviste per un giornaletto di musica da quattro soldi mi riproposi di capirne un po’ di più di stò tipo. Riuscii a trovare il suo numero di telefono e lo chiamai. Venne a prendermi alla stazione ferroviaria di Cittadella con una 127 e mi portò a casa sua e lì mi parlò del blues: dei Sonny Boy, di Andrea Cocco, di Elmore James, di Toffoletti. Di tutto quello che immaginavo potesse voler dire quella parola, insomma. Rimase impressionato, credo, dal fatto che io non prendessi appunti e che, alla fine, ciò che avevo scritto era proprio ciò che aveva detto. Per questo motivo, vent’anni dopo, mi telefonò e mi disse: “Ciò Marco, ghe sarìa Marino Grandi che ga bisogno de qualcuni che scriva sul Blues. Mi ghe go fatto el tò nome, te podarìa ndar ben?” (Marco, c’è Marino Grandi che cerca qualcuno che scriva sul “BLUES”. Gli ho fatto il tuo nome. Ti potrebbe andare bene?). In quei vent’anni erano successe tante cose, davvero tante, sia per lui che per me.
Per quanto mi riguardava avevo cominciato a suonare e, per forza, dovevo trovare dei punti di riferimento, non solo meramente musicali, che mi facessero capire qualcosa. Nessuno meglio di Raffaele poteva esserlo. Se potevo andavo a sentirlo suonare. Dopo un concerto in un locale di Bassano del Grappa gli chiesi: “Ma quando che te canti, te sighi pi che cantar…” (Quando canti, urli più che cantare). Bisson rise, con quel modo un po’ diabolico che aveva di ridere. “Ciò. In Italia c’è solo Claudio Bertolin che può cantare il blues come i mori. Non ce ne sono mica altri che hanno quella voce, anca mi me tocca sberegar par parer un poco moro (mi tocca un po’ gridare per sembrare appena, appena nero)”. Feci subito mio la sua filosofia dello screamin’ the blues, cosiccome feci subito mia la sua opinione su Guido Toffoletti, controverso bluesman veneziano di cui, quasi sempre, si finiva per parlare. Opinione che mi fece ben capire come, aldilà della musica, vadano considerate le persone a tutto tondo: “Ah sì! Ho sentito dire di tutto su Guido. L’unica roba che posso dir è che è stato l’unico a portar in giro il nome Cocco & Bisson, a passarne i indirissi dei locali. E’ uno che si è dato da fare per il movimento. Tanti parla, parla ma noi fa gnente par chealtri (molti parlano, parlano ma non fanno niente per gli altri). Guido si è dato da fare anche per noi. E questo me basta par pensarghine tanto ben. Punto”.
In quei vent’anni era soprattutto accaduto che Andreino Cocco era incorso nel misteriosissimo “pneumatorace”, ancora oggi non so precisare meglio cosa e perchè gli fosse accaduto, che lo aveva allontanato dalle scene per un sacco di tempo e Raffaele aveva battuto la strada con altri bravi armonicisti che avevano trovato in lui una sorta d’anfitrione: il suo amico di gioventù, Giovanni Lunardon, tanto bravo cantante e armonicista, quanto schivo e modesto da non aver mai beccato l’abbrivio dell’ italian harp world, e Marco Pandolfi che, pur essendo altrettanto schivo e modesto, è rimasto travolto dal suo enorme talento e dal suo gusto diatonico, tanto che, partendo da Raffaele, è arrivato ai santuari di Memphis, mantenendo però un grandissimo rispetto, al limite della venerazione, per “Il Cardinale”, il nomignolo di Bisson, e per “Il Vescovo”, Claudio Bertolin. Loro due, Raffaele Bisson e Claudio Bertolin, hanno davvero rappresentato l’autentica università bluesistica veneta: hanno cresciuto tutta una generazione di praticanti e di alchimisti del blues e da questi sono sempre considerati una sorta di maestri venerabili. Hanno pure suonato spessissimo insieme nella Downhome Blues Band, con Riccardo Crivellaro alla batteria e Massimo Durante al basso, e in duo, in acustico, in spettacoli semplici, che però hanno colpito per intensità spettatori per nulla abituati al blues, tanto che molti andavano a chiedere chi fossero quei due impossesai (posseduti) che stavano suonando. E l’esperto, con sguardo sapiente e, al tempo stesso, noncurante, rispondeva: “Sono Claudio Bertolin e Raffaele Bisson, no ghe ne xe altri in Italia come lori (non ce ne sono altri in Italia come loro). Punto”.
Non si diventa “Il Cardinale” per caso e, girato il gatto dall’altra parte, non tutti possono vestire la porpora. Raffaele l’aveva indossata perché oltre ad aver battuto l’Italia su e giù insieme al blues quando noi ancora ascoltavamo l’Equipe 84 o i Genesis, oltre ad aver introdotto il Bisson pattern - il modo selvatico di cantare e suonare che possiamo apprezzare in ogni minima traccia di “Break Down”- era anche e soprattutto il grande custode della memoria enciclopedica del blues. Se qualcuno, preso da improvvisa fregola, voleva conoscere qualcosa di, che so, Lucille Bogan o Papa George Lightfoot bastava che si mettesse in contatto con Bisson e veniva aperta la scatola da cui saltavano fuori mori de ogni canton dea Merica (neri da ogni parte degli Stati Uniti), dagli Appalacchi fino al Deep Ellum di Houston, che si rincorrevano fino a creare una moltitudine di chitarristi e armonicisti che nessuno aveva mai sentito nominare. Raffaele era “Il Cardinale” perché conosceva tutti i segreti della chiesa del Blues: era l’ambasciatore in Veneto del Grande Padre che stava a Milano. Ma come ogni porporato che si rispetti aveva anche polso e capacità miracolatorie. Non posso dimenticare il suo intervento in un’intricata faccenda di compensi non pagati da un comune dell’hinterland padovano. Era stato organizzato un festival blues in cui s’erano esibite parecchie band venete e persino i Max Pandi Chatu-Kings, ma dopo un anno nessuno aveva ancora visto il becco d’un quattrino. S’era tentato in diversi modi di risolvere la questione, ma nessuno era riuscito a impensierire minimamente l’ufficio ragioneria del comune, tanto che s’era pressochè deciso di lasciar perdere. A quel punto Il Cardinale s’alzò e agitando la mano che indossava l’anello pastorale disse: “E no che no assemo perdar. Vago mi dal sindaco…”. Raffaele Bisson partì di buon ora la mattina dopo e si recò in visita dall’autorità. Come nell’incontro tra Papa Leone I e Attila nessuno saprà mai cosa si dissero i protagonisti, la verità rimane gelosamente custodita nei sacri palazzi, ma un mese dopo l’appuntamento ogni musicista disponeva di quanto stabilito nel proprio conto corrente. Un altro misterioso intervento del Cardinale riguarda l’incisione di “Break Down”, il cd del 2004 di Cocco & Bisson, uno dei cd che come “Blues Is A Lonely Road” di Claudio Bertolin e “I Don’t Want To Take Nothing With Me When I’m Gone” di Angelo Leadbelly Rossi, segnano una linea di demarcazione nel mare magnum del blues italiano. Ad un certo punto delle sessioni di registrazione Raffaele e Andrea decisero che, in almeno un po’ di canzoni, avrebbe potuto starci bene un batterista, ma di batteristi almeno un pochetto pratici in quel frangente non ce n’era manco uno, perciò acchiapparono il primo di passaggio nello studio, tal Renato Gallo, che Andreino Cocco giura essere stato null’altro che un batterista di liscio. Ciò che viene fuori dalle cinque tracce con batteria di “Break Down” è assolutamente incredibile: pare che Renato Gallo non abbia fatto null’altro nella sua vita che ascoltare canzoni di Doctor Ross o batteristi delle colline del Mississippi e, per quanto io stimi Cocco, credo che il drive decisivo debba per forza essere stato trasmesso da Raffaele grazie ai suoi sperimentati metodi pastorali.
Se si voleva movimentare una cena blues era necessario invitare al medesimo desco Raffaele Bisson e Marco Ballestracci. Le acque cominciavano a intorbidarsi sin all’inizio, quando il secondo per salutare il primo s’inginocchiava e gli baciava l’anello. “Areo Baestracci, no sta mia cumissiar a fare el mona” (Ballestracci non cominciare a fare lo stupido). Ma la tempesta gonfiava davvero quando, immancabilmente, ad un certo punto della cena sempre il secondo buttava lì sul tavolo il guanto di sfida: “Secondo me Blind Willie Mc Tell e Lonnie Johnson erano solo degli hillibillies neri, una roba tipo Little Richard, solo un po’ più roots”. A quel punto gli occhi di Raffaele Bisson lampeggiavano d’una luce sinistra e dopo un paio di brontolii si scatenava la tempesta. Cominciavano a fioccare giù gli improperi più inenarrabili, popolati da musicisti che scuotevano l’aria, come prima, dagli Appalacchi al Deep Ellum di Houston. Persino Howlin’ Wolf, periodo Sun, scendeva minaccioso a minacciare l’arciprete che sventolava la tonaca del Cardinale. Quando la tensione era davvero al massimo e stava persino per apparire Little Walter Jacobs, Raffaele Bisson si metteva a ridere, con quella risata che chi l’ha fortunatamente conosciuto ricorda benissimo, e diceva: “Dai portame naltra fetta de torta che sto dolse se proprio bon” (Forza portami un’altra fetta di torta che questo dolce è proprio buono). Abbiamo litigato anche durante l’ultima telefonata che gli ho fatto, mi pare discutessimo sul blues italiano, perché, come sempre, avevamo opinioni diverse sulle cose. Messo giù il telefono mi sono messo a ridere perché ho pensato che ci siamo sempre accapigliati per un qualche motivo bluesistico, ma poi quando è stato il momento di dare il nome ai nostri figli, nati a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, Raffaele l’ha chiamato Nazzareno ed io Emanuele.
Io credo che le persone continuino a vivere in qualche modo. Ricordo bene le ultime telefonate con Gianni Mangione e le chiacchierate con Pier Robbiani. E’ il ricordo che continua a farle vivere. Al funerale di Raffaele, Anita, sua moglie, ha chiesto a Marco Pandolfi che passassimo a trovarla, perché, inevitabilmente, si finisce per parlare di blues e tutti quegli sproloqui, in qualche modo, fanno in modo che Raffaele torni a dire la sua. Raffaele, però, non occorre rievocarlo. Un po’ di Raffaele vive dentro a Claudio Bertolin, a Riccardo Crivellaro, a Paolo Cerato, a Marco Pandolfi, a Giovanni Lunardon, a Andreino Cocco. E un po’ anche dentro me.
Dalle note di “Break Down”:
Andreino e Raffaele ringraziano babbo e mamma per averci messo al mondo anche se non nel posto giusto!
A volte pensando a Bisson mi domando perchè tu ti sei staccato dal blues Ma forse è solo temporaneo Un bel ricordo, veramente un bel ricordo
RispondiEliminaFra
Perchè di gente come Bisson non ce n'è più..o meglio, davvero poca.
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