All'inizio d'agosto non si dovrebbero far ragionamenti troppo complicati, meno che negli altri periodi dell'anno, perchè, appunto, è agosto, ma i pensieri (in effetti "ragionamento" è una sovrastima) capitano quando capitano e si scrivono costì.
Una delle cose che m'ha colpito durante quest'ultimo girovagare dietro all'uscita d'"Imerio" è il fatto che i migliori librai (cioè quelli che fanno i librai per missione e non perchè "un'attività commerciale vale l'altra" e che non confondono un libro con i bermuda a fiori) che m'hanno ospitato preferiscono, tra i miei libri, "La Storia Balorda". La faccenda è singolare perchè tra i miei sei lavori pubblicati, compresi quelli col "Foglio Letterario", "La Storia Balorda" è il libro che ha venduto meno. Più o meno come "Compagno di Viaggio" e "Bluespadano", ma a siderale distanza dal "Cannibale" e "Imerio". I librai e moi meme abbiamo cominciato a sfugugliare sulla questione. "Com'è che il libro in cui s'è cercato un passettino in avanti nello sviluppo della storia sta occupando bancali nel magazzino dell'Instar Libri?". Non è che servono tanti sforzi per capire stà storia. In Italia, si richiede un certo tipo di storia: aldilà delle varie derive erotico/disgraziesche che vanno di modissima, serve una vicenda molto circostanziata e che non richiede particolare sforzo da parte del lettore. Questo è, senza mezzi termini, ciò che l'editoria, sbavando di continuo sul termine cultura, sollevato a più non posso, desidera. Roba semplice, vendibile, che non stiamo qui troppo a rompere i coglioni. Credo che possa essere sottolineata all'uopo una frase di Ernesto Ferrero prima dell'ultimo Salone del Libro: "Ciò che impensierisce è il fatto che sembra che il lettore dal libro desideri più una conferma di quanto già conosce, piuttosto che apprendere qualcosa di nuovo", a cui può essere aggiunta una curiosa constatazione di Giovanni Cocco, finalista al Campiello di quest'anno, in cui sottolinea come, dopo più di 30 rifiuti da parte di case editrici italiane, la sua sorte si sia volta al bello quando il suo agente è riuscito a vendere "La Caduta" a una casa editrice straniera per la traduzione. Il giorno dopo hanno iniziato a bussare alla sua porta (più verosimilmente a quella dell'agente) un sacco di case editrici nostrane, molte delle quali avevano già rifiutato in precedenza il manoscritto. Insieme queste due affermazioni portano a una terza opinione espressa da Walter Lazzarin, scrittore di valore di piccolissima casa editrice, ma perfettamente condivisibile che "se David Foster Wallace e Don De Lillo fossero stati italiani, nessuna casa editrice li avrebbe pubblicati perchè troppo innovativi, troppo poco quadrati. Sono stati pubblicati in Italia solo perchè in America avevano ottenuto un grandissimo successo". Da questo tipo di understatement, i grandi editori strombazzano di CULTURA, o meglio, della mancanza di cultura, come se le case editrici non ne dovessero essere veicolo in primis, riverberando ciò che di pazzesco m'accade quando giro per le scuole: annoiatissimi insegnanti di lettere si sfogano dicendo che questi ragazzi non hanno cultura. "E chi cazzo gliela deve insegnare? Me nonno in carrioea? Perchè cazzo ti pagano, scusa?". Tutto ciò porta al favoloso risultato che il libro forse più ben scritto che io abbia letto recentemente, con tutto un progetto linguistico e sociale alle spalle, "L'Erba che Fa Il Grano" di Paolo Repossi languisca nei magazzini della casa editrice che l'ha pubblicato, mentre "Io ti Vedo", "Io ti Sento", "Io ti Palpo", che fanno cagare anche solo a osservarli graficamente, perchè hanno risparmiato pure sulla grafica, viaggiano a nastro. A quel punto a chi si gratta la testa sulla questione, sorge un dubbio: "Vuoi vedere che, davvero, hanno ragione quelli che dicono che, pur ululando contro il degrado culturale italiano, agli operatori culturali interessa un sacco che si resti tutti un bel po' gnurant, così propinano paro paro quello che pare a loro?".
Continua la prossima volta, parlando della musica...
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