martedì 27 novembre 2012

UN RACCONTO PERDUTO E RITROVATO

E' difficile tenere un blog, come già dissi: potrei parlare di blues, ma è acqua passata, potrei parlare di libri, ma è ancora un tantino presto per via che aspetto gli exit-poll d'"Imerio". Perciò posto un vecchio racconto, più recente di quelli che avete trovato in "A Pedate", ma che parla dello stesso tema. Mi sarebbe piaciuto, se avessi conosciuto la storia, metterlo tra quelle 11 storie, ma è saltato fuori dopo che il libro era già entrato nella rotativa della Mattioli1885. Perciò lo faccio emergere ora, senza editing e senza niente, cosiccome è saltato fuori due anni e mezzo fa. Fate conto sia il dodicesimo racconto di "A Pedate".


IL RACCONTO D’UNA BATTAGLIA

Gli organizzatori erano persino contenti. Un parere neutro avrebbe testimoniato di non tanta gente in platea, ma, davvero per gli organizzatori non erano per nulla pochi. Per una serata infrasettimanale in una cittadina che pareva uscisse di casa solo per le funzioni domenicali, quella trentina di persone rappresentava un successo di cui raccontare in giro. Ma c’era dell’altro. La trentina intervenuta rappresentava quasi tutte le età e tutti, indistintamente, stavano a bocca aperta ad ascoltare il tizio che parlava. Come se discorresse su qualcosa di mai sentito. Eppure l’oratore, o come si vuol nominare quello che chiacchierando gesticolava sopra la pedana del cinema parrocchiale, aveva avvisato la platea.

 “Il calcio di cui vi racconto non è il calcio d’adesso. E’ un altro calcio. Badate bene non mi permetto di confrontare i calciatori d’allora con quelli d’adesso. Lo lascio fare a voi. Vi dico solo che fino al mondiale 1966 le sostituzioni non erano ammesse. Furono possibili due cambi a partita a partire dall’edizione 1970 della Coppa Rimet, quella giocata in Messico. Prima, chi cominciava la partita la doveva finire in un modo o nell’altro. Poi nei mondiali del 1966, Stanley Rous, il presidente della FIFA, che aveva orchestrato il torneo per fare in modo che, finalmente, l’Inghilterra  vincesse, venne colto dal rimorso. Oppure, è più verosimile conoscendo lo stomaco robusto di Rous, qualcuno gli fece notare che vedere Pelè, il più forte giocatore di tutti i tempi, zoppicare pietosamente durante tutta la partita Portogallo – Brasile dopo il terribile tackle di Morais all’inizio del primo tempo, era assolutamente scandaloso. “Passi che l’arbitro Mc Cabe non abbia espluso Morais, perché quello meritava l’intervento, ma quantomeno concedere l’opportunità della sostituzione ai brasiliani. Almeno quello”. Allora Rous ne convenne. A malincuore, ma ne convenne. Disse: “Dal 1970 comincìno le sostituzioni. Più per la fatica dell’altura di Messico che per altro..”. E il calcio cambiò. Come l’Avanti Cristo e il Dopo Cristo. Ci furono ancora partite eroiche, ma relegate alla prima metà degli anni ’70, quando ancora alcuni giocavano coll’idea del resistere fino all’ultimo respiro. Poi tutti si conformarono al calcio nuovo. Cosa significa calcio eroico? Non ve lo sto a specificare riga per riga. Vi racconto solo alcune storie di partite. Ancora una volta siete voi che dovete farvi un’idea di cosa fosse quel calcio e cos’è quello d’adesso. Se, casomai, siano lo stesso sport”.

E cominciò a raccontare di giocatori col capo bendato, di gente che rifiutò di disputare la prima finale del Campionato del Mondo in Uruguay per paura di uno che chiamavano “L’Uomo che Cammina” e di altre storie ancora che parevano piovute dai tempi di Enrico Toti e Gregorio Finimondi. Poi l’oratore, o come accidenti si vuol chiamare, disse che sir Stanley Matthews, l’ala destra inglese che giocò fino a 50 anni, sostenne che la partita più dura che egli avesse mai giocato fu Inghilterra – Italia a Highbury nel novembre del 1934: una partita che passò alla storia come “la Battaglia di Highbury”. “Ma” e poi sostenne un attimo di silenzio che pareva vibrasse nell’aria sopra le teste degli spettatori, “ci sono state un sacco di partite che hanno dato vita a vere e proprie battaglie campali. Io, dal canto mio, ho rovistato qui e là, tra vecchi giornali e discorsi che i pensionati fanno nei bar, e, ad oggi, questa è la partita più dura di cui abbia mai sentito parlare”.

“Nel 1938 la squadra che tutti s’attendevano e desideravano diventasse campione del mondo era una squadra che in Europa nessuno aveva mai visto. Forse per questo l’agognavano così tanto campione. Perché era forte attraverso le voci che, chissà in che modo, provenivano d’aldilà dell’Oceano. Era il vento che superava il mare che sospirava i nomi di Leonidas Da Silva, di Domingos da Guia, di Tim, di Zezè Procopio. I calciatori brasiliani venivano sognati. Tim faceva sparire la palla davanti agli occhi degli avversari esterrefatti, Leonidas rimbalzava da una parte all’altra del campo ad una velocità prodigiosa e talvolta s’esibiva in un funambolismo che in Sudamerica tutti chiamavano la “cilena”, ma di cui i brasiliani avevano cominciato a parlare come della “bicicletta” pur di non dar meriti alle “moscas” cilene. Si raccontava che Leonidas facesse come un salto mortale all’indietro riuscendo a calciare la palla con la testa sotto e le gambe per aria. Domingos, invece, era un difensore spietato, ma una volta svelta la palla all’avversario non si produceva nella pedata caratteristica del comune centromediano: un po’ precisa e un po’ in balìa della fortuna. No. Usciva dall’area con la palla al piede e la testa alta. Osservava le mosse dei compagni e poi si produceva nel lancio millimetrico che meglio li assecondava. Il Brasile era un prodigio portato dal vento e il vento era davvero molto amato dai francesi. Avevano esordito  a Strasburgo ed erano riusciti a piegare dopo i tempi supplementari un’ inaspettatamente valorosa Polonia. A dir la verità, finchè il campo era rimasto praticabile i brasiliani avevano surclassato i polacchi, ma poi un’acquazzone aveva inselvatichito il prato e i polacchi, più robusti, avevano preso il sopravvento. Era finita 6 a 5 con quattro reti marcate, nonostante il fango, dal fenomenale Leonidas. Ma, adesso, il tempo a Bordeaux era bello e contro la Cecoslovacchia i brasiliani avrebbero potuto esprimersi al meglio. Solo che i cecoslovacchi erano i vice-campioni del mondo. A Roma, quattro anni prima, avevano perso la finale contro l’Italia ai supplementari e per quanto i brasiliani fossero spinti dall’entusiasmo, la Cecoslovacchia era pur sempre una delle grandi potenze del calcio europeo: Planicka era sempre uno dei migliori portieri al mondo, Nejedly che era stato capocannoniere a Roma non era niente affatto schizzinoso quando si trattava dell’odore del gol e Puc, l’ala sinistra che aveva battuto Combi durante la finale, era sempre veloce, ma più esperto. Tutti avrebbero voluto trionfatore il Brasile, ma tra Bordeaux  e la semifinale di Marsiglia  c’erano di mezzo i cechi. I polacchi, nella partita precedente, avevano concesso molto spazio agli attaccanti brasiliani che, per questa ragione, avevano davvero sollazzato il pubblico, ma già dall’inizio i cecoslovacchi avevano fatto intendere che il copione questa volta sarebbe stato  diverso. I difensori non concedevano un metro ai funamboli sudamericani e questi, intrappolati tra calcetti e strattoni leggeri, s’innervosivano sempre più mano a mano che il tempo trascorreva. Dall’altra parte del campo Nejedly, nei primi contrasti, era  riuscito sempre ad aver ragione di Zeze’ Procopio  e imponeva l’intervento di qualche altro difensore in aiuto. Già dopo un quarto d’ora s’assistette alla prima scazzottatura tra Peracho e Boucek, ma l’arbitro Hertzke non prese alcun provvedimento perché si formò un cappannello di calciatori urlanti che gli impedirono di distinguere chiaramente chi fossero i proto-pugili  e sanzionarli alla bisogna. Fu più facile dieci minuti dopo. Nejedly lasciò sul posto ancora Zezè Procopio e Machado arrivò di corsa, diritto sul piede destro del centravanti che scrocchiò sotto i tacchetti del brasiliano. Nejedly rimase a terra a lungo col piede che il massaggiatore considerava, scuotendo la testa, piuttosto fratturato, mentre lì a fianco si formarono dei tafferugli, con Zezè Procopio particolarmente combattivo e sbraitante. Una volta che gli assembramenti si sciolsero l’arbitro ungherese lo afferrò per un braccio con un’aria minacciosa e gli indicò gli spogliatoi. Rimanere in dieci non era affatto una bella cosa, ma non era così tragica. Non erano affatto in inferiorità numerica perché Nejedly, pur rimanendo in campo, col piede in quelle condizioni si limitava a trascinarsi mestamente per il terreno di gioco. Poco dopo Lopez riuscì a superare in velocità Daucik e a mettere in mezzo all’area un pallone sul quale Leonidas appariva in ritardo, con sicurezza Burger s’avvicinò per controllare, ma il centravanti s’allungò come fosse di gomma e calciò in scivolata anticipando il difensore. Planicka rimase di sasso, si lanciò, ma la sorpresa per quel movimento inaspettato lo mantenne in lieve ritardo. La rete si gonfiò e i brasiliani festeggiarono il loro fenomeno, pure ammiccando un pochetto agli avversari. Ma i cecoslovacchi non erano lì per fare le comparse, né tantomeno per farsi prendere a botte. A Machado, che aveva provocato l’infortunio di Nejedly, non venne fatto mancare nulla. Curiosamente la palla girava sempre dalle parti del difensore brasiliano e altrettanto curiosamente c’era sempre qualche danubiano che gli finiva addosso e qualche ginocchio che puntava al bersaglio grosso. Verso la fine del primo tempo, Machado vinse un contrasto con Seneki e s’impadronì del pallone, neppure un istante per rendersi conto di averlo effettivamente tra i piedi che già Jan Riha, che era stato risucchiato dalla pressione ceca nella metaccampo brasiliana, gli si scagliò contro in spaccata, molto più interessato a qualsiasi parte del corpo del brasiliano che alla palla. Caddero entrambi e già da terra iniziarono a picchiarsi. Si rialzarono suonandosele e ,una volta eretti, si afferrarono per le maglie con una mano e con l’altra presero a elencare una serie notevole di colpi codificati dall’”arte nobile”. Ogni tanto le nocche andavano precisamente a segno e si percepivano gli schiocchi dei pugni che colpivano il volto dell’uno o dell’altro. Si buttarono nella mischia altri giocatori, ma Machado e Riha continuarono imperterriti a completare il match, senza badare agli estranei. Dopo un po’ gli intervenuti e l’arbitro si scansarono attenendosi al vecchio detto portuale che “in una rissa si va per picchiare oppure è meglio starne fuori” e si misero a osservare l’esito dell’incontro parteggiando per l’uno o per l’altro. Quando Riha e Machado, stanchi del pugilato, terminarono vicendevolmente aggrappati, vennero accompagnati fuori dall’arbitro ancora afferrati. La polizia e i massaggiatori provvidero a staccarli e a scortarli negli spogliatoi. La partita riprese, ma l’esempio dei due si diffuse rapidamente sul terreno di gioco e ovunque ci fosse il pallone si percepiva il suono secco di una ferma pedata sugli stinchi. Hertzke fischiò la fine del primo tempo con un po’ d’anticipo perché, magari, l’intervallo e i generi di conforto avrebbero un poco tranquillizzato gli animi. Almeno così sperava il direttore di gara, ma, alla fine della pausa, entrambe le squadre si precipitarono fuori dagli spogliatoi come fanno i tori quando si toglie loro davanti l’ostacolo di legno che sbarra il passaggio all’arena. Due minuti e Kostalek rimase lungamente a terra per una ginocchiata al fegato rimediata in un contrasto aereo davanti a Planicka. Un’altra decina di minuti e Peracho incocciò il gomito d’un difensore. Gli si aprì la fronte e la larga ferita necessitò d’una decina di minuti di medicazione e una fasciatura così ampia che tutti si chiedevano come accidenti facesse a vedere le azioni di gioco. Poi Seneki ricevette una palla da Kreutz e lasciò sul posto Alphonsinho, entrò in area e, quando stava per tirare, Domigos lo caricò. Hertzke non ebbe dubbi. Indicò il dischetto, mentre spintoni e insulti riempivano l’aria sopra il prato di Bordeaux. I cecoslovacchi si guardarono l’un l’altro per decidere chi dovesse tirare e poi sentirono il “Tiro io” provenire da chi proprio non l’avrebbe dovuto fare, ma visto chi l’aveva detto nessuno si permise di controbattere. Olda Nejedly prese il pallone e, trascinandosi, lo mise sul dischetto. Tutti i cechi rimasero in religioso silenzio: Planicka e Nejedly erano i due monumenti del calcio nazionale. Se non era la parola di Dio, poco ci mancava. Tutti rimasero a guardare quella scena incredibile: Nejedly con le mani sui fianchi che respirava profondamente, davanti a Walter. Nejedly non si trascinò. Corse verso il pallone come se il suo piede destro non fosse affatto fratturato, colpì di sinistro e non lasciò scampo al portiere. Poi cadde e lì rimase finchè non arrivò la barella a riportarlo negli spogliatoi. Alla ripresa del gioco pareva che una tempesta si fosse abbattuta sul campo portandosi via degli uomini. Erano nove contro nove, ma Kostalek e Peracho erano dei fantasmi che s’aggiravano per il campo. Ma il fortunale non si placò. Poco dopo fu il turno dell’altro grande condottiero cecoslovacco. Lopez alzò un traversone, troppo alto per tutti, tranne che per Planicka. Leonidas saltò lo stesso per ostacolarlo e lo colpì quel tanto che bastò per rovinargli la coordinazione aerea. Planicka s’inclinò come un aereo colpito e cadde rovinosamente al suolo. Il dolore fortissimo al braccio lo avvertì immediatamente che la partita e il mondiale erano finiti lì: era una frattura e non poteva continuare. Venne subito accompagnato all’ospedale e Horak lasciò la fascia destra del campo per indossare la maglia di portiere. L’arbitro comprese che, a quel punto, sarebbe stata necessaria una rivoltella per sedare gli animi. Non trascorsero neppure due minuti che Leonidas dovette ricorrere alle lunghe cure del massaggiatore per un calcione infertogli nelle parti più intime. Rimase disteso ad ansimare per un bel po’ prima di rientrare in campo un po’ disorientato e in debito d’ossigeno. I cecoslovacchi tennero i brasiliani distanti dalla porta a forza di sganassoni per tutti i tempi regolamentari e per i due supplementari. Quando Hertzke fischiò la fine dell’incontro, in campo c’erano solo sopravvissuti. Qualche spettatore sussurrò con attenzione: “Sembra di essere a Verdun dopo un attacco dei tedeschi..”. Ma non era finita. Nel calcio dell’Avanti Cristo non c’erano escamotage. Due giorni dopo venne disputata la ripetizione dell’incontro, per stabilire chi avesse il diritto di continuare il cammino nel Mondiale. Fu un’altra partita leggendaria perduta tra pieghe della storia. I brasiliani avevano riserve di gran valore, mentre i cechi avevano racimolato la squadra pregando il dottore e San Cirillo, ma d’arrendersi alla sorte non volevano sentir parlare. Vinse il Brasile 2 a 1. Segnò ancora una volta Leonidas, che pareggiò il gol di Kopecky, e poi, dopo che Capdeville non aveva convalidato un gol di Seneki, che aveva tirato nel bel mezzo di una mischia e Walter aveva parato un bel po’ dentro la linea di porta, fu Roberto, due minuti dopo, a chiudere definitivamente la partita. I brasiliani non gioirono particolarmente, non ne avevano motivo. Quelli che avevano finito la partita erano a tutti gli effetti dei reduci e, a Marsiglia, c’erano gli italiani ad attenderli. Leonidas era sfinito e azzoppato dalle botte ricevute dai difensori cecoslovacchi, che, d’altro canto, non s’abbatterono più di tanto. Avevano svolto con coscienza un compito arduo. Il calcio Avanti Cristo era un lavoro duro, ma qualcuno doveva pur farlo”.

L’oratore, o come ciascuno degli astanti avrebbe potuto chiamalo, terminò e rimase a fissare un punto imprecisato della sala. Forse anche più in là del muro che delimitava l’edificio. Ci fu un attimo di silenzio esterrefatto. Poi tutti ricaddero sulle seggioline di legno del cinema parrocchiale e cominciarono ad applaudire. Forte. Davvero forte. Più di quanto ci si potesse aspettare da solo una trentina di persone affastellate là, in un tranquillo martedì sera di provincia.

giovedì 1 novembre 2012

CARI INSEGUITORI

N.b. oggi 6 novembre, la presentazione d'Imerio si svolgerà alla Libreria Massaro e non Costeniero. Abbiate pazienza, ma vi accorgerete che stecche si tirano a 50 anni.

Cari inseguitori di Imerio lanciato in fuga sul Gavia, sul Muro di Sormano o su verso Superbagneres, ecco come riacchiapparlo, se volete, prima che s'involi nuovamente.

IMERIO: LE TOUR
1. 6/11/2012 ore 20.45, Libreria Massaro, Castelfranco Veneto. "Lo spettacolo d'Imerio", con Claudio Cecchetto, fisarmonica.

2. 11/11/2012 ore 18.30, Sala della Sede degli Alpini di Cavasagra, il luogo del romanzo. "Lo spettacolo d'Imerio", con Claudio Cecchetto, fisarmonica.

3. 13/11/2012 ore 18.30, Feltrinelli Mestre, Piazza Barche. "Imerio" con Edoardo Pittalis e Claudio Cecchetto, fisarmonica.

4. 17/11/2012 ore 20.00, Milano, Castello Sforzesco, MILANO BOOK FESTIVAL. "Imerio Unplugged" con Max Prandi, chitarra, percussioni, armonica, voce.

5. 23/11/2012 ore 20.45, Bassano del Grappa, Sala Superiore Ufficio Turismo - Libreria Bassanese. "Il Veneto a Pedali" aka "Lo Spettacolo d'Imerio" con Claudio Cecchetto, fisarmonica.

Per il mese di novembre è tutto, arrivederci all'arrivo.

lunedì 15 ottobre 2012

SONO VENETO BLUES



Che a leggere il titolo del post mi vengono i brividi. Però sì, "Imerio" è un libro sul Veneto. A un amico gli ho pure piazzato la dedica "Il Veneto ai veneti!" che mi fa rabbrividire, ma era per prenderlo per il culo. Sì è un libro sul Veneto, con parti persino in veneto, nel senso del dialetto, perchè è casa mia. Non c'è niente da fare. La prima cosa che dico sottovoce dopo uno spettacolo è: "Ma si sente dall'inflessione che sono veneto?", quando, per caso, mi rispondono di no tiro un sospiro di sollievo, ma io non ci posso fare gnente. SONO VENETO! Nato a Neuchatel da padre lunigianese, ma veneto. Cazzo! Qua è dove sono cresciuto, tra due passaggi a livello tra le linee Treviso - Vicenza e Venezia - Bassano e stò posto lo amo come si amano dei genitori che ti fanno drammaticamente girare i coglioni ogni santo giorno, ma sono i tuoi genitori: li conosci da quando "senti" qualcosa e mica puoi farne a meno tanto facilmente. Però so tutto. So che la ricchezza è cresciuta molto più velocemente del saver stare al mondo e che siamo una regione piena d'ignoranti arricchiti che appena escono in un consesso più ampio fanno la figura dei coglioni e se ne accorgono; perciò tra le due vie del cercare di acculturarsi un pochetto e isolarsi dal resto d'Italia, per esempio, scelgono la seconda, che costa meno fatica. So che abbiamo la memoria corta: che trattiamo quei che vien da fora come ci trattavano i francesi dopo la seconda guerra mondiale quando andavamo a cercare lavoro. So che frequentiamo le chiese come nessun altro al mondo e poi diciamo: "Vuto schei? Va lavorar e no sta rompere i cojoni col domandar carità!" e giù un bel bestemmione, che tra noi e i toscani non si sa chi vince in ridicolizzare la famiglia di Dio, ma loro, anche i contadini ti citano a memoria un canto della Divina Commedia a memoria e noi molto più in là della bestemmia non andiamo. So tutto, che cazzo. So che abbiamo l'etichetta perenne dei gnurant, come una sorta di peccato originale e come tali eleggiamo gente nei sogli che contano a nostra immagine e somiglianza: proprio come gli italiani che hanno eletto Berlusconi. A immagine e somiglianza desiderata. So che facciamo ridere i polli e che vorrei stabilirmi, chessò, a Torino o a Bellinzona, che sono i posti a cui sono e sono stato più legato, ma, guardacaso, sono proprio i posti in cui i veneti, a suo tempo, soprattutto emigravano. Sono un veneto fottuto, lo so, e non ne sono orgoglioso, ma quando torno da spettacoli, concerti e tutte quelle balle là, questa è casa mia e qui ci piango davvero bene.

mercoledì 3 ottobre 2012

L'ANNIVERSARIO DI GLENN

Mica è semplice tenere un blog. Sempre qualcosa da scrivere, possibilmente che non siano puttanate e proprio per quest'ultimo motivo fare stà cosa diventa arduissimo. Io ho ripreso perchè il 25 ottobre esce "Imerio" e bloggare un poco mi pare che possa essere un discreto traino per il libro medesimo. Mia opinione, naturalmente. Ma oggi sono contento di postare qualcosa perchè domani, 4 ottobre, è il 30^ anniversario della morte di uno dei più grandi personaggi che io abbia mai ascoltato avvicinarsi a uno strumento. E' curioso perchè non è affatto un musicista di blues, musica di cui sono stato innamorato per molto tempo e che, alla fine, m'ha trasmigrato in Africa. Non è neppure un musicista di rock, nel senso più lato possibile, che continua ad accompagnarmi. E' un musicista classico e, ancor oggi, non so perchè, io che non distinguo un DO da un mulo parlante, lo sento enormemente vicino, come se lui e io potessimo discorrere tranquillamente e alla pari d'argomenti di cui non capisco una beatissima ostia. Eppure è così. Non avrei neppure immaginato, un giorno, di avere degli argomenti su Johan Sebastian Bach, di cercare notizie su di lui e persino di leggere monografie che lo riguardino, se non fosse transitato su questa terra Glenn Gould. Che razza di sortilegio ha tirato fuori perchè entrassi anch'io a far parte della schiera di quelli che amano la musica classica senza capirne una mazza? Non lo so, non potrei spiegarlo. Fortunamente ci sono persone che hanno condiviso questa stranissima sorte e ne hanno dato testimonianza.
Da Katie Haffner: "Glenn Gould e la ricerca del pianoforte perfetto".
"Il modo di suonare di Gould ha provocato una risposta viscerale in gente che non avrebbe mai pensato di fermarsi e ascoltare davvero la musica classica. C'era qualcosa nel silenzio, fra e dietro ogni nota, nella ricchezza delle diverse voci, che rapiva l'immaginazione e faceva sì che gli ascoltatori avvertissero che la loro vita sarebbe stata migliore e più profonda.
Ad alcuni, quelli che già conoscevano bene la musica, il modo di suonare di Gould ha offerto la possibilità d'ascoltare qualcosa di nuovo. Altri, che non avevano un'affinità speciale con la musica classica, hanno raccontato d'aver percepito una maggiore sintonia con la musica ascoltando per la prima volta Gould che suonava....Un'autista dell'UPS di Roanoke, Virginia, raccontò a uno studioso di Gould della volta in cui udì qualche battuta delle Variazioni Goldberg provenire dalla radio del furgone e di come istintivamente avesse cominciato a cercare un'altra stazione. Ma siccome era impegnata in una svolta e aveva bisogno d'entrambe le mani la musica era continuata, e continuata ancora, trasformando la donna in una devota ammiratrice dell'arte di Gould".
E poi, naturalmente, maestro Evan Eisemberg nell'"Angelo con il Fonografo".
"Alla mia generazione si può forse perdonare un certo risentimento verso Glenn Gould, "colpevole" ai nostri occhi d'aver abbandonato il palcoscenico prima che ci fosse data l'opportunità d'ascoltarlo dal vivo. A dire il vero all'epoca eravamo troppo occupati ad ascoltare i suoi dischi per accorgercene. Le sue incisioni ci mostravano che la musica classica non era tutta sentimento e decoro, abiti da sera e volontà di compiacere il proprio insegnante; poteva essere anche spigolosa e solitaria, eccitante come una scatola del piccolo chimico, una partita a scacchi o lo scroscio della pioggia sul parabrezza. E i suoi scritti, se allora li avessimo notati, non solo ci sarebbero apparsi ugualmente eccitanti, ma ci avrebbero suggerito una nuova interpretazione della musica stessa".
30 anni fa domani, all'ospedale centrale di Toronto moriva Glenn Gould. Ma ogni volta che metto un suo cd
lui si mette al piano davanti a me, seduto su quell'eccentrica "sedia pigmea". Eccentrica come il suo padrone che suona l'Adagio del concerto BWV 974 facendolo apparire comprensibile persino a un somaro come me.

lunedì 1 ottobre 2012

LIBRI DI SPORT (E NON DI BLUES)

Cosa sarebbero stì LIBRI DI SPORT?  Ah, io non lo so. Son gli altri che parlano di libri di sport, come se fossero una roba particolare della, chiamiamola così, letteratura, che anche quest'ultima io non so bene cosa sia. Però di certo stanno da una parte delle libreria: quella con scritto sopra SPORT. Lì ci puoi trovare di tutto: dal manuale per spaccare in due con la testa un blocco di porfido fino a "Futbol" d'Osvaldo Soriano. Tutto lì dentro. Ci si può trovare persino "Il Centravanti è Stato Assassinato Verso Sera", "Il Maledetto United" e persino "Il Professionista" come se fossero la stessa roba delle "Dieci Lezioni per Diventare un Maestro di Tantra Yoga". Però è così che funziona: tutti gli argomenti della narrativa sono una roba, lo sport è tutt'altra. Lo sperimentai per la prima volta nel 2008 quando passai da scrivere libri attinenti al blues ad "A Pedate". "A Pedate" riraccontava 11 celebri partite di calcio cercando lo stesso modus operandi che avevo tenuto per "Compagno Di Viaggio - 9 Racconti in Blues", mettendomi, se possibile, nei panni dei protagonisti e provando a vivere per un poco nella loro pelle. Che fossero Blind Arvella Gray o Ferenc Puskas per me era proprio lo stesso. L'accoglienza di chi aveva idolatrato "Compagno di Viaggio" e "Bluespadano" s'ammosciò. "Un libro sul calcio?". Come se avessi sputato su ciascuna delle due tombe (ma adesso pare ce ne siano tre) di Bobby Johnson, in cui nessuno sa se sotto ci sia veramente lui. E lì a spiegar loro che era stata la mia infanzia vedere Giggirriva tirare delle gran pappine verso la porta d'Anzolin e piangere quando il Milan perse a Verona il campionato del 1973. Mica ero cresciuto pescando pescigatto sullo Yazoo River e mangiando pomodori verdi fritti. No. Ero venuto su vedendo perdere Bitossi a Gap, che quello, vacca ladra, era davvero un gran blues. Ma niente da fare. Non c'era stato verso. Lo sport era una roba che sta più in basso, anche se a ben vedere il buon Omero, con l'Iliade, aveva scritto un libro di sport, solo che Aiace Telamonio mica aveva la punta della spada protetta: a Troia mica arrivavano alle 15 stoccate. Lì era buona la prima. Ciò nonostante rivendico a tutta voce che il cercare di ricreare le emozioni d'un emigrante in Francia, sfruttato e preso per il culo dai transalpini, o in Belgio, nero per la polvere di carbone, quando Bartali e Coppi mollarono tutti sull'Iseran nel Tour del 1949 o quando Fiorenzo Magni si cinse la corona consecutiva dei Giri delle Fiandre, vale come qualsiasi altro argomento. Cristo Santo. Insomma. "Il Professionista" di W.C. Heinz fotte tutti i libri che ho letto quest'anno: persino "Hhhh" di Laurent Binet e "Giuliano" di Gore Vidal. E Elmore Leonard c'ha scritto pure la prefazione o la postfazione, in cui dà le regole per come dev'essere la forma d'un libro, che ti puoi attenere oppure no, sono affari tuoi che mica hai l'obbligo di frequenza. Ma postfazione o prefazione? Che non mi ricordo, con tutto stò casino di libri e cd dappertutto non ci si capisce più un'ostia e non si ritova più niente. Almeno avessi uno scaffale dedicato allo sport che lo ritroverei subito. Vacca ladra.

mercoledì 26 settembre 2012

IMERIO SUL TRAGUARDO


Ci son cose che si capiscono tardi. Una volta mi chiesero se "L'Ombra del Cannibale" fosse un romanzo di formazione. Io non ho risposto. Mica perchè fossi straffottente, ma perchè neppure immaginavo che ci potesse essere qualcosa chiamato ROMANZO DI FORMAZIONE. Cosiccome non sapevo che ci fossero le copie-staffetta dei libri: una roba che si dà agli addetti ai lavori prima che il libro esca. E invece ci sono. Allora. Ho visto Imerio in copia-staffetta ed è persino più fino (nel senso di spessore) dell' "Ombra del Cannibale" che aveva 140 pagine. Sinceramente lo scopo di tutto stò mio scrivere è portare a termine prima o poi una roba tipo "Il Re e Il Suo Giullare" o "Shantaram", che uno ci resta attaccato come fosse un librino anche se han settecento pagine buone. Con "La Storia Balorda" ero soddisfatto che avevo sfiorato le 200 pagine, ma "Imerio" è tornato giù di spessore. Vacca ladra. Ma d'altro canto, in fondo, mica conta il numero di pagine, conta quello che c'è scritto, anche se un bel volume fa sempre la sua figura. Uno scrittore deve avere sia la dote di scatto che la dote di fondo, proprio come i ciclisti, come Merckx. Ma ci sono dei ma, come sempre. Non so a cosa serva scrivere un bel volumone proprio adesso che c'è quel robo bello grosso (son tre a ben vedere) che ha a che fare col sado-masochismo che straccia tutti. Il mio massimo di sadomasochismo è stato quando m'è scivolata una panca del bar sul ditone del piede sinistro, che, siccome lo prevedevo, m'ero provveduto a calzare un sandalo estivo. E non mi piacque per cui ritenni d'abbandonare il genere. L'altro ma è legato alla questione dello scrivere un libro bello grosso allungando il brodo o menando il turùn, come preferite. Potrei mettervi dei titoli contemporanei, ma sarebbe di cattivo gusto. Piuttosto preferisco prendere un rischio grossissimo: tra W.C. Heinz, che non so come Giunti sia riuscita a scoprire, e il suo libro del 1958, "Il Professionista", appena tradotto e pubblicato in Italia, e "Il Grande Sonno" del pluri-citato Raymond Chandler, pubblicato nel 1939, io preferisco cento volte il primo, perchè Chandler con le sue descrizioni di Los Angeles, della villa degli Sternwood, del tappeto di Arthur Geyger, alla fine ruma un poco i marroni, come si dice. Gli chiedi: "Cazzo! Raymond dammi la storia, non nuvole di fumo di sigaretta da attraversare con le dita!". Perciò se un giorno riuscissi nel mio intento di scrivere il librone, vorrei che fosse come quei tre che ho citato benignamente: niente palle, solo estratti. 
Ma, alla fine, "Imerio" è un librino, diciamocelo. Meglio, in Italia vanno un sacco i librini.
Allora, innanzitutto, vi spiego com'è lo stato della letteratura in Italia e lo faccio con un esempio.
Nel 2008 ha vinto il Nobel per la letteratura Jean-Marie Le Clèzio che nessuno in Italia mai aveva cagato paro, tranne Instar Libri, che pubblicò quel piccolo (nel senso di fino di spessore) capolavoro che è "L'Africano", passando in un giorno (quello della proclamazione) da 500 copie vendute a 50.000. Lo stesso accadde nel 2009 con Herta Muller che nessuno aveva mai considerato, tranne Keller che, come Instar, in un giorno aggiunse due zeri al numero di copie vendute del "Paese delle Prugne Verdi". 
Ricordo come fosse ora lo strombazzamento dei capintesta delle case editrici italiane, quelli che pubblicano Vespa, Veltroni, Faletti, per concludere qui che poi magari qualcuno s'adombra, e il realtivo scotimento di capo sulle scelte dell'Accademia Svedese ("e questi chi cazzo sono? dove li han scovati? minchia sti svedesi non sanno un cazzo di libri"), come se i gnurant fossero gli scandinavi e non (alcuni, ma maggiori) editori italiani.
L'editoria italiana si riprese l'anno dopo con Vargas Llosa che almeno qualcuno aveva sentito nominare, ma tornò agli alti lai quando nel 2011 venne premiato uno di quelli che stan lassù, in mezzo ai caribù. Ma, come sempre, gli imbecilli son quelli dell'Accademia di Svezia, mica quelli che han bisogno dell'annuale caso pietoso per vendere.
In questo stupendo agone, un librino va bene, perchè negli appuntamenti importanti bisogna comunque far vedere che si legge: soprattutto in quelli galanti, che le donne leggono e, magari, qualche uomo. Un librino è comunque un libro da sventolare e magari può diventarlo persino un racconto lungo: basta scegliere il corpo giusto (di stampa, intendo) e si diventa come Saint-Exupery o come quello di Torino che andava per bachi da seta in Giappone (non metto il nome perchè, quando vado tra i piemunteis trovo sempre qualcuno che insegna nella sua scuola e mi fanno un culo così).
Ecco, "Imerio" è un librino. Il massimo per la letteratura italiana. E adesso mi vien da ridere.

venerdì 21 settembre 2012

IMERIO E ALTRE STORIE (prima parte)

Allora s'avvicina la pubblicazione d'Imerio, il 25 ottobre, e, insomma, devo creare un po' d'attenzione sulla faccenda. Perciò riprendo in mano il blog. Bisogna. Perciò ecco a voi:

IMERIO E ALTRE STORIE (prima parte)

Ci sono quelli che mi dicono che non sono riusciti a leggere "Memorie di Adriano" perchè troppo complicato, che bisogna andare avanti e indietro con le pagine ed è una rottura di marroni. Oddio, io l'ho letto quattro volte e ci ho fatto pure sopra "L'Ombra del Cannibale", adesso lo posso ammettere che son passati tre anni e qualche mese, ma non posso non capire quelli che dicono che "Adriano" è peso. Insomma bisogna pescarne il mood giusto, ma se hai un periodo sbagliato lo molli là, sul comodino o sopra il radiatore. Eccome se capisco, sul mio radiatore ci sono tanti di quei libri mollati là che se conosceste i titoli inorridireste. Tra i libri che ho mollato là c'è "Er Pasticciaccio Brutto di Via Merulana". Adesso io sono aperto a tutto, ma voglio proprio che qualcuno scriva che l'ha, onestamente, finito. E' scritto in romano da un milanese, con l'aggravante che Ingravallo, il poliziotto, viene da qualche parte dell'Abruzzo e parla nel suo idioma che, francamente, alla fine, prima devi tradurre e poi devi leggere. Ci sono nobili scrittori che m'hanno giurato che l'hanno letto ma io non ci credo. Non è possibile. Io sono arrivato a metà e procedo coll'attenzione d'un fante a Montecassino. Io non dico che il Pasticciaccio non sia un bel libro, dico che è quasi impossibile leggerlo. Gadda era andato aldilà del linguaggio e, siccome non gli bastava più la scrittura normale, s'è inventato un linguaggio nuovo per parlar del torbido di Via Merulana. Insomma un po' come Waits o il Teatro degli Orrori, che son partiti dal piano bar e della "Canzone del Sole" per arrivare al casino che fanno oggi perchè, giustamente, la normale forma musicale l'avevano esplorata e cercavano qualcosa di là del muro. Però Gadda (insomma è sempre stato trattato come un extraterrestre letterario, povero disgraziato, trattiamolo almeno un po' come uno di noi) è stato il primo che m'ha fatto pensare che si potesse scrivere in dialetto e se l'ha fatto Gadda, perchè non lo posso fare io? E poi è successa un'altra cosa che m'ha fatto pensare che si potesse scrivere in veneto. Portavo in giro Margherita Oggero e Ernesto Ferrero durante Bolascolegge e, nel parcheggiare, mi son fermato a chiacchierare con un amico e poi, ancora, per la strada a buttare giù battute con i conoscenti, tutto rigorosamente in dialetto veneto. A un certo punto Margherita Oggero mi fa: "Ma parlate sempre in dialetto qui?" e io ho risposto di sì. Sì parliamo quasi esclusivamente in dialetto perchè ci viene così. Parlare in dialetto è come essere un po' più complici, meno formali. Usare un codice. Tutte quelle robe lì. Senza naturalmente sconfinare nelle puttanate della lingua autoctona che purtroppo vanno tanto di moda. Il veneto è un dialetto e non una lingua. In "Imerio" perciò ho usato un po' del mio dialetto: in certi punti schietto, o sccietto come si dice qui, in certi punti un italiano parlato da un veneto degli anni sessanta che prova a parlare la lingua corretta e nella maggior parte del libro l'italiano/italiano. Per dire che si può comprare anche in Piemonte e Lombardia che si capisce bene lo stesso. In Piemonte in particolare che ci sono così tanti cognomi veneti da far paura. I Lazzarotto, i Toso, i Balmamion, i Fraccaro sono il retaggio di quando noi veneti avevano le pezze al culo e partivamo a frotte per guadagnare da vivere. Ora è cambiato tutto. Ora i forestimica li sopportiamo tanto bene, ma "Imerio" vuole raccontare di allora: quando alle frontiere abbassavamo la testa e ce lo siamo dimenticati. A presto che qui sta diventando una predica e io mica sono un prete. Dio mi scampi.

mercoledì 21 marzo 2012

ANCORA NUOVI APPUNTAMENTI NEI PRIMI PASSI DI PRIMAVERA.

L'ultima novità è che la "Storia Balorda" ha vinto il Selezione Bancarella Sport 2012. Di certo saremo a Pontremoli il 21.07.2012 a parlare del libro e a vedere se, questa volta, si riesce a trascinare a Castelfranco Veneto il Bancarella Sport.

24.4 ore 21.00 LA STORIA BALORDA, in solitudine, Centro Culturale Due Mulini, Castelfranco Veneto.

28.4 ore 12.00 STORIA DI GAMBE (second round), ristorante da carletto, cadoneghe (pd), al temine d'una pedalata che partirà da ALOHA CICLORIPARAZIONI, in Via Cernaia a Padova. Per dettagli visitare pagina facebook di Terror Philipson Vogliardi. Con Claudio Cecchetto (fisarmonica).

05.05 ore 10.30 STORIA DI GAMBE, racconti di ciclismo. Sala della biblioteca di Altivole (TV). Per scuole medie e appassionati. Con Claudio Cecchetto, fisarmonica.

16.05 ore 21.00 I LIBRI DENTRO AI LIBRI, in solitudine. LIBRERIA BORGOPO', TORINO da Liliana Maina.

17.05 ore 21.00 STORIA DI GAMBE, racconti di ciclismo, in solitudine. LIBRERIA LA GANG del PENSIERO, TORINO da san andrea bertelli.

24.05 ore 21.00 SUI PEDALI, Palazzetto dello Sport di Castelfranco Veneto, in occasione dell'arrivo del Giro d'Italia. Un esperimento al confine tra storie e realtà del ciclismo, coll'indispensabile collaborazione di NOTORIOUS COMUNICATION LAB.

21/22/23/24 giugno 2012 BOLASCOLEGGE.


21.07 La Storia Balorda a Pontremoli, finale del Bancarella Sport 2012.

mercoledì 25 gennaio 2012

UN AGGIORNAMENTO APPUNTAMENTI

Cari amici del blog, si sta scrivendo su altri futuri supporti.
Per ora solo un aggiornamento appuntamenti, per chi volesse partecipare:
9 febbraio 2012 ore 20.30, Libreria Costeniero, Castelfranco Veneto:
STORIE DI LIBRI. I libri dentro i libri, in perfetta solitudine si parla di lettura e scrittura.

14 febbraio 2012 ore 21.00, Diego Armando, Vallà di Riese Pio X.
L'ARTE DEL MAIALE. Il maiale dalla Bassa al Sud degli Stati Uniti. Le zampette che ascoltano il liscio e il blues. Tra  Parma, Mantova e Memphis, Tennessee. Con Claudio Cecchetto, fisarmonica.

21 febbraio 2012, Libreria La Gang del Pensiero, Torino.
TRA IL CANNIBALE E LA BALORDA, in solitudine dietro ai miei libri.

22 febbraio  2012, Galleria del Libro, Ivrea.
TRA IL CANNIBALE E LA BALORDA, in solitudine dietro ai miei libri.

23 febbraio 2012, Teatro della Caduta, Torino, ore 21.00.
LA STORIA BALORDA, lo spettacolo con Luigi Tempera, chitarra e voce.